L’annuncio nel 2018 della clonazione di due scimmiette in un laboratorio cinese (per la precisione due macachi, di nome Zhong Zhong e Hua Hua) ha di nuovo suscitato l’interesse del pubblico verso questa pratica sperimentale. In realtà, gli scienziati avevano già provato in passato a riprodurre degli esseri viventi mediante la clonazione: ricordo qui in particolare il caso clamoroso della pecora Dolly, la cui clonazione venne annunciata nel 1997 e di cui si discusse in tutto il mondo. Pare che le scimmie siano state ottenute con la stessa tecnica di Dolly, ma questa volta siamo di fronte alla moltiplicazione di un animale, il cui aspetto è molto più simile a quello dell’uomo e questo suscita certamente inquietudine. Se poi riflettiamo sul fatto che i primati e gli esseri umani possiedono un genoma quasi identico ed hanno in comune il 95% dei loro geni, allora l’inquietudine diventa vera preoccupazione: perché il prossimo passo sarà, evidentemente, la clonazione degli esseri umani. Ricordo che, solo un anno dopo la nascita di Dolly, alcuni ricercatori coreani annunciarono di aver dato inizio alla clonazione di un essere umano partendo da un ovulo modificato geneticamente, ma di essersi poi fermati quando l’embrione era formato da poche decine di cellule, distruggendo poi tutto. Vero o falso? Probabilmente allora si trattò solo di una bufala (oggi più modernamente si dice fake news), forse era un sistema per farsi dare da qualche ricco sponsor più finanziamenti per la ricerca. Ma il risultato odierno è assai più concreto e quindi mette più paura.

Molti scrittori del passato sono stati affascinati dalle implicazioni dell’idea che si possa duplicare un essere umano. Il tema infatti è precedente all’arrivo della fantascienza e suscitava interesse nei lettori e negli scrittori già da molto tempo, soprattutto all’epoca del romanzo gotico, quando la scienza moderna muoveva i suoi primi passi. I metodi allora descritti per duplicare l’uomo erano però piuttosto fantasiosi e improbabili. C’erano per esempio gli automi: esseri meccanici, costruiti da artigiani che sembravano più orologiai che scienziati. Ricordo qui la bambola Coppelia in L’uomo della sabbia (Der sandmann, 1817) di E. T. A. Hoffman, Il giocatore di scacchi di Maelzel (Maelzel's Chess-Player, 1836) di Edgar Allan Poe, La creatura di Moxon (Moxon’s master, 1909) di Ambrose Bierce, L’automa insanguinato (La poupée sanglante, 1923) di Gaston Leroux, l’isola popolata di simulacri in L’invenzione di Morel (La invenciòn de Morel, 1941 ) di A. Bioy Casares, e così via. In teoria, in questa categoria si potrebbe inserire anche il nostro Pinocchio (e infatti Stanley Kubrick nel suo A. I., ultimo film rimasto incompiuto, è partito proprio dalla fiaba di Collodi per raccontare una storia di androidi). Di certo nella fantascienza moderna questi automi hanno perso l’aspetto più macabro e orrorifico e sono diventati i robot di Asimov e Sheckley, oppure gli androidi di Philip K. Dick (il quale amava definirli proprio per questo “simulacri” – scordatevi la parola replicante: è una invenzione cinematografica, che a Dick non sarebbe piaciuta).

Un altro metodo di duplicazione era l’idea del Doppelgänger, tipica del romanticismo tedesco, secondo la quale per ogni individuo esiste da qualche parte nel mondo una sua copia conforme, ma dotata di caratteristiche spirituali opposte: insomma, una sua immagine speculare. William Wilson (1839) è uno dei più famosi racconti di Poe e tratta proprio di questo. L’idea sopravvive ancora oggi nella narrativa thriller e horror: si veda per esempio Il terzo gemello (The third twin, 1996) di Ken Follett, Il cattivo fratello (From the corner of his eyes, 2000) di Dean R. Koontz, oppure Mucchio d’ossa (Bag of bones, 1998) di Stephen King.

Da ultimo va ricordata la figura dell’homunculus, creatura artificiale, realizzata in modo misterioso dagli alchimisti. Furono in molti a sostenere di averne creato uno o più di uno: da Raimondo Lullo a Paracelso, fino al “mago” Aleister Crowley che si vantava di aver ereditato i segreti dei suoi predecessori. Un bell’esempio letterario di omuncolo è Brown Jenkin, l’orrida creatura che perseguita in sogno il protagonista de I sogni nella casa stregata (The dreams in the witch-house, 1933) di H. P. Lovecraft. Ma probabilmente il più noto di questi omuncoli è il golem, un gigante di argilla che veniva animato grazie ai segreti alchemici contenuti nella Qabbalah ebraica. Dal punto di vista letterario, il golem di Praga è divenuto una figura centrale in vari romanzi, da quello di Gustav Meyrink a quello di Isaac B. Singer, fino alla recente versione di Eliette Abecassis. Secondo la leggenda ebraica, venne animato per difendere il suo popolo dal rabbino Yehuda Loew ben Bezalel, figura storica realmente esistita nel rinascimento, famoso cabalista e amico del grande astronomo Tycho Brahe. Ma tutto questo ha ben poco a che vedere con la clonazione. Stranamente, la letteratura mainstream si è occupata pochissimo di un tema del genere, lasciando sola ad interessarsene la letteratura di science fiction, che ne ha analizzato tutti gli aspetti. Tutto sommato, la più moderna e lungimirante degli autori dell’Ottocento è stata Mary Shelley, che scelse di far animare la creatura di Frankenstein dal risultato di una ricerca scientifica, anziché dalla Cabala, dalla magia nera o dall’alchimia. Non a caso, la sua opera chiude la stagione del gotico e apre quella della fantascienza. Ho sempre pensato che quest’ultima non debba essere considerata un genere letterario, ma piuttosto un movimento culturale che, non diversamente dall’espressionismo, dal futurismo o dal surrealismo, ha interpretato un’epoca, che va dalla fine del diciannovesimo a tutto il ventesimo secolo. Come ogni movimento artistico, include non solo la scrittura ma anche la musica e le arti visuali (dall’illustrazione al fumetto, dal cinema alla televisione). Se mai, generi e sottogeneri sono al suo interno. C’è la fantascienza rigorosa e scientifica (hard SF), c’è quella avventurosa (space – opera), c’è la distopia o antiutopia, c’è la fantasia con qualche elemento fantascientifico (science fantasy), ci sono i romanzi catastrofici e apocalittici (per cause naturali o artificiali) e c’è la narrativa sperimentale (speculative fiction – dove la SF è spesso marginale). Ogni genere ha proprie caratteristiche, che si possono a volte mescolare ma più spesso sono separate e rigidamente codificate. Concordo con James Gunn quando osserva che la SF non potrebbe esistere prima dell’avvento della civiltà industriale e dell’emancipazione della ricerca scientifica dal rigido controllo sociale dei secoli precedenti. Nella sua storia della science fiction americana, Gunn infatti considera importanti l’introduzione dell’elettricità di Edison, la locomotiva a vapore di Stephenson, le scoperte sui bacilli di Pasteur non meno delle opere di Wells o di Verne. Come ogni movimento letterario anche la fantascienza ha avanguardie, retroguardie e deviazioni laterali, con le quali che cerca di rispondere alle istanze del progresso: non dunque una lettura amena, un “genere” da ghettizzare, ma l’espressione necessaria di tendenze di fondo proprie alla moderna società occidentale. Società che si caratterizza proprio per il ruolo fondamentale che al suo interno ha assunto il discorso scientifico: direi la riflessione sulla scienza, prima ancora che l’esame delle applicazioni pratiche della scienza medesima. Non posso ora fare un elenco di tutte le opere che si sono occupate del tema, per cui cercherò di indicare solo alcune delle principali, quelle che, a mio parere, un appassionato dovrebbe avere letto. E magari meditato. Chi volesse approfondire, può consultare Il sosia, il doppio, il replicante di G. Panella (Elara Libri, 2009), oppure I falsi Adami di G. P. Ceserani  (Feltrinelli, 1969). Oppure può leggersi il capitolo Fotocopie, duplicati e cloni del mio saggio Da Frankenstein a Star Trek, scienza medica e fantasie scientifiche e poi consultare la mia bibliografia sull’argomento.

I metodi con cui la fantascienza produce questi Doppelgänger sono svariati: androidi perfettamente uguali a un essere umano, duplicati virtuali nella memoria di un computer, paradossi temporali per cui un individuo incontra più volte se stesso, scivolamenti attraverso universi paralleli, trasmettitori di materia oppure apparecchi che trasformano direttamente l’energia in materia. Per ognuno di questi metodi, possiamo scegliere tra moltissime opere di valore. Se però parliamo di clonazione, dal punto di vista scientifico la maggior parte delle opere che ho letto si mostra imprecisa e superficiale: magari sono affascinanti sotto l’aspetto speculativo e dello studio psicologico dei personaggi, ma ha ben poco a che fare con la clonazione vera e propria. Succede anche quando gli autori sono scrittori di grandi qualità. Kate Wilhelm, per esempio, ha scritto un romanzo d’esordio assieme a T. L. Thomas dal titolo The Clone (1965), noto da noi come Dalle fogne di Chicago. Ora, la combinazione di batteri e sostanze chimiche che si rimescola nelle fognature e poi ne emerge, producendo un gigantesco, impressionante “blob” capace di assorbire gli esseri viventi che incontra, è tutto fuorché un clone. Clonazione, in biologia, indica la creazione asessuata, naturale o artificiale, di un secondo organismo vivente o anche di una singola cellula che ha tutte le caratteristiche genetiche del primo. Per estensione, oggi è chiamata così anche la copia genetica di un individuo (chiamato “matrice originale”).

Su un argomento così esteso, posso qui ricordare solo alcuni dei titoli più interessanti. La stessa Wilhelm, forse per fare ammenda delle imprecisioni precedenti, ha poi scritto uno dei più bei romanzi sul tema dei cloni: Gli eredi della Terra (Where late the sweet birds sang, 1976). In questo caso, i pochi sopravvissuti all’olocausto nucleare decidono di clonare se stessi per garantire la sopravvivenza in futuro della specie umana.

La domanda principale infatti è: se possiamo duplicare mediante clonazione un animale, oppure un uomo, che cosa ce ne facciamo?

La risposta più concreta e più facile da realizzare è la seguente: pezzi di ricambio. Provate a pensarci: per ogni essere umano si potrebbero ottenere una o più copie in grado di fornire organi e tessuti intatti, da sostituire al bisogno. Badate che questa non è più fantascienza: qualcuno ci sta concretamente pensando. In fondo, le tecniche di trapianto ci sono già da tempo e sono abbastanza semplici. Il vero problema è la reazione di rigetto, ma con un clone questo non avverrebbe, come hanno provato i trapianti fra gemelli identici. Purtroppo questi cloni sono pur sempre esseri viventi, magari dotati di coscienza. Che ce ne facciamo dopo che li abbiamo “smontati”? Ci sono parecchi romanzi importanti su questo argomento: negli anni ’60, quando il tema ha cominciato ad essere seriamente discusso sulle riviste di fantascienza, sono comparsi La terza mano (Organlegger, 1969) e Un dono dalla Terra (A gift from Earth, 1968) di Larry Niven, Le scogliere dello spazio (The reefs of space, 1963) di Pohl & Williamson, I mercanti di dolore (The pain peddlers, 1963) di Robert Silverberg. E così via. In tutti quanti, i trapianti nel futuro sono così comuni che, per approvvigionarsi dei “pezzi” necessari, lo stato sostituisce la pena di morte con il prelievo forzato degli organi ai condannati. La compravendita clandestina degli organi, a distanza di qualche decennio da queste opere, non è più fantascienza distopica ma una triste realtà quotidiana. Segnalo in quest’ottica Ricambi (Spares, 1994) di M. Marshall Smith e I segreti dello scorpione (The house of the Scorpion, 2002) di Nancy Farmer, entrambi raccontati dal punto di vista del clone, che non ci sta a fare da fornitore di pezzi di ricambio. Le spaventose implicazioni morali di una simile operazione ci riportano ovviamente al peccato di hybris del dottor Frankenstein di Mary Shelley o del dottor Jekyll di Stevenson. Forse è questo che ha spinto Kazuo Ishiguro, scrittore scozzese ma di origine giapponese, recentemente insignito del premio Nobel per la letteratura, ad occuparsene nel suo romanzo Non lasciarmi (Never let me go, 2005). Sono protagonisti due ragazzini, che vengono educati nel più perfetto dei college inglesi come se fossero destinati a far parte della futura classe dirigente britannica: solo nelle ultime pagine scoprono qual è il vero destino loro riservato. Fornire ricambi, per l’appunto.

Una delle risposte più clamorose alla questione di che cosa fare con i cloni è stata quella offertaci dal medico – scrittore Michael Crichton nel suo romanzo Jurassic Park (1990). L’autore ipotizzava che si potesse trovare del sangue fossile di dinosauro, con il DNA ancora intatto, all’interno di un insetto imprigionato nell’ambra. Da qui, parte un grande progetto di ricostruzione dei grandi rettili del passato, che si auto-finanzia grazie alla trasformazione della riserva che li custodisce in un parco dei divertimenti. Rispetto al film che ne ha tratto Steven Spielberg, il romanzo appare molto più accurato e documentato dal punta di vista scientifico, pur senza mai perdere di vista la necessità di intrattenere il lettore. Il recente “NeXt” (2006), scritto dall’autore poco prima della sua morte per cancro, riprende e sviluppa il tema della manipolazione genetica, già sfruttato per il più noto Jurassic Park ed esordisce con l’inquietante frase: “Viviamo in un’epoca in cui il 20% dei nostri geni è di proprietà di qualcun altro — un laboratorio privato, una multinazionale farmaceutica, una università”. Infatti le modifiche genetiche ad esseri viventi sempre più complessi non si contano più, come dimostrano le polemiche attuali sugli OGM (organismi geneticamente modificati). E sono molto pochi, al di fuori della fantascienza, a preoccuparsene: business is business.

Una volta stabilito che da una cellula si può ricostruire un essere vivente complesso come un dinosauro, perché non pensare di fare lo stesso un uomo?  E soprattutto: per farne che? La scienza medica risponde che serve per la ricerca di soluzioni per malattie oggi incurabili, mediante il trapianto di geni, di tessuti o di organi. Ottimo. Ma c’è il fondato pericolo che la risposta sia di altro tipo: mano d’opera a buon mercato. La fantascienza ha spesso ipotizzato che tecniche di manipolazione genetica o di clonazione potessero venire utilizzate per produrre esseri umani di serie B, privi di diritti, da utilizzare come lavoratori, o come schiavi, o come soldati. Oltre al classico Mondo Nuovo (Brave new world, 1932) di Aldous Huxley, si possono citare Fabbricanti di schiavi (A for anything, 1957) di Damon Kight e Torre di cristallo (Tower of glass, 1970) di Robert Silverberg, due importanti aggiornamenti della tematica proposta da Huxley. Ma per essere certi che non si ribellino, si potrebbero dotare i cloni di una data di scadenza molto breve, quella che nel gergo degli economisti si chiama “obsolescenza programmata” e che ritroviamo nei replicanti di Blade Runner o in Made in USA (1953) di J. T. McIntosh. In particolare, l’idea di mandare a combattere i cloni al posto dei veri esseri umani ha colpito molto la fantasia degli scrittori e degli sceneggiatori. Come nel film Universal soldier di Peter Hyams, dove il legnoso e inespressivo Jean Claude Van Damme si rivela particolarmente adatto a interpretare il soldato resuscitato e mandato nuovamente a combattere. Anche nella saga cinematografica di Guerre Stellari, a un certo punto, compare un intero esercito, composto da centinaia di migliaia di cloni. Dal punto di vista letterario, va ricordato in particolare Giù tra i morti (Down among the dead men, 1954) di William Tenn, dove i soldati vengono più volte resuscitati e ricostruiti, per essere di nuovo spediti a combattere. I loro commilitoni non li vogliono vicino perché puzzano (di cadavere, ovviamente). L’unica loro speranza è di essere disintegrati da una bomba, in modo che il corpo non possa essere più rigenerato. Questo è l’unico caso dove la letteratura mainstream è arrivata per prima: il romanzo di Tenn, infatti, mi ha ricordato molto da vicino La ballata del soldato morto (Legende vom toten soldaten, 1918), un poemetto satirico giovanile di Bertolt Brecht.

Bevenuti in un mondo perfetto. troppo perfetto.
Bevenuti in un mondo perfetto. troppo perfetto.

Da ultimo, bisogna accennare ai romanzi in cui famosi personaggi storici del passato vengono resuscitati con questo sistema. Ce ne sono moltissimi. C’è chi ha proposto di resuscitare Mussolini e chi Tommaso Moro (Lafferty), chi Mozart (Blish) e chi John Lennon (Benford). Uno dei primi a parlarne, tra gli scrittori di fantascienza, è stato A. E. Van Vogt nel suo romanzo Il mondo del Non-A  (The world of Null-A, 1945) e nei suoi seguiti. Il suo protagonista Gilbert Gosseyn ha clonato se stesso e ha disseminato copie del proprio corpo in vari punti della Terra e del sistema solare. Quando muore, la sua mente si trasferisce in un altro dei suoi corpi, tenuti in animazione sospesa, così che Gosseyn è pronto a ricominciare. Un sistema ingegnoso, che gli consente di essere virtualmente immortale. Molti critici hanno liquidato l’idea come una infantile fantasia di potere, ma in realtà l’autore aveva semplicemente una grande fiducia nel futuro e nella scienza. Basta pensare che scriveva durante la seconda guerra mondiale, quando la genetica era ferma a personaggi come Linneo e Mendel e solo visionari come Robert Goddard pensavano di salire su un razzo per andare nello spazio. Oggi abbiamo decodificato il genoma umano (l’annuncio del completamento è proprio stato dato nel 2022), siamo stati sulla Luna, parliamo seriamente di colonizzare Marte e abbiamo già clonato dei mammiferi: e sono trascorsi solo ottant’anni! In pochi hanno però compreso che un individuo non è formato solo dai suoi geni, ma viene plasmato dalle sue esperienze di vita, da come lo educano i genitori, dalla cultura in cui cresce, dagli incidenti e dalle malattie che subisce, dagli incontri che fa, dai libri che legge, e così via. Bisognerebbe poter fare un back up del cervello, così come si fa della memoria di un computer, per poi poterlo installare nel cervello “vergine” del clone (è questo il punto più debole dell’idea di Van Vogt). Il rischio, in questo caso, è di creare un clone troppo uguale, come accade allo scienziato protagonista di “Il triangolo quadrilatero” (The four sided triangle, 1949) di William F. Temple. Lo scienziato, innamorato perdutamente della donna di un altro, sa di non avere con lei alcuna possibilità e perciò  realizza un marchingegno con cui procurarsi una sorta di fotocopia della donna amata, per uso strettamente personale. Tecnicamente la donna viene creata mediante una macchina duplicatrice e non clonata, ma non stiamo a sottilizzare. La donna, non appena conosce l’amico, reagisce esattamente come l’originale da cui è stata tratta e s’innamora di lui, rifiutandosi alla scienziato che l’ha creata, finendo per cadere in uno stato di prostrazione mentale che la spinge a cercare la morte. Temple ripropone così, sotto mentite spoglie, la punizione divina che colpiva Frankenstein o Jekyll per il loro peccato di orgoglio. Il più attento e capace nell’aver intuito questo limite è stato un altro scrittore di fantascienza, Theodore Sturgeon, nel suo breve romanzo Se speri, se ami (When you care, when you love, 1962). Qui, una donna molto ricca passa buona parte della sua vita e spende tutti i suoi guadagni nel ricostruire il clone del suo amore perduto. Lo fa crescere, gli fa imparare tutto ciò che sapeva l’originale, e aspetta il suo momento. Non importa se nel frattempo lei sarà invecchiata: lo aspetterà e spera di poterlo rivedere com’era un tempo. Altro non chiede. Uno dei pochi a seguire Sturgeon su questa strada è stato Ira Levin, noto scrittore ebreo-americano, nel suo romanzo I ragazzi venuti dal Brasile (The boys from Brazil, 1976). Qui si ipotizza che Mengele, il cosiddetto “dentista di Auschwitz”, sia riuscito a fuggire in Brasile portando con sé alcune provette con dei campioni di tessuti di Hitler. Grazie  al denaro accumulato derubando gli ebrei e al sostegno di “Odessa”, l’organizzazione segreta dei gerarchi nazisti in esilio, Mengele riesce a riprodurre alcuni cloni di Hitler e li affida segretamente in adozione ad alcune famiglie sparse per il mondo. Dopo di che si occupa di far vivere a questi ragazzi le stesse esperienze del giovane Adolf: la morte prematura dei genitori, la passione per la pittura, il carcere, e così via. L’idea è che in questo modo almeno uno dei ragazzi acquisti il carattere e i comportamenti del Führer. Ma questa storia non è l’esempio più estremo: lo scrittore americano James Beauseigneur ha scritto una trilogia di romanzi dal titolo A sua immagine (In his own image – The Christ clone trilogy, 2003), in cui immagina che sulla Terra del futuro compaia addirittura un clone di Gesù Cristo, grazie ad alcune cellule sanguigne prelevate dalla Sindone. Naturalmente appare nel corso della narrazione anche un Anticristo, e la battaglia di Armageddon può avere inizio. L’opera, pur non contenendo nulla di realmente blasfemo, ha suscitato parecchie polemiche e questo le ha impedito di arrivare al successo che probabilmente meritava, perché sicuramente è molto ben scritta. Anche in questo caso, tuttavia, il problema è il solito: non basta copiare il DNA e moltiplicare le cellule. Nel romanzo, il clone di Gesù diventa un funzionario dell’ONU, ma per ottenere un nuovo Messia occorrerebbe fargli rivivere le stesse esperienze del primo, fino a formare la sua mente e la sua personalità. Dovrebbe cioè crescere nell’ortodossia ebraica, leggendo la Torah e il Talmud, imparare il greco e l’aramaico, crescere in una famiglia con una madre giovane, un padre adottivo e numerosi fratelli e cugini, scomparire per qualche anno a meditare nel deserto e così via. Tutte cose piuttosto difficili da ottenere: tutto sommato, la duplicazione di un dinosauro (come suggeriva Chrichton) è molto più realistica.