Per anni si è favoleggiato di un possibile sequel di Blade Runner, che nel 1982 quasi portò alla bancarotta i suoi produttori per poi lasciare col tempo un segno indelebile nella fantasia degli appassionati e nel nostro immaginario comune. In diverse interviste Ridley Scott aveva ribadito la sua intenzione di tornare ai suoi personaggi per esplorare l’altro lato della frontiera rimasto sullo sfondo, le colonie extramondo.

Ma le sue dichiarazioni sembravano eternamente destinate al limbo delle buone intenzioni e più gli anni passavano, più Blade Runner, vero e proprio manifesto dell’estetica cyberpunk, diventava sinonimo dell’idea stessa che ci andavamo costruendo del futuro, rendendo tanto improbabile un ritorno alla Los Angeles del 2019 quanto più ci spingevamo vicini all’orizzonte degli eventi di quel futuro.

Finché non è scesa in campo la Alcon Entertainment: rilevati da Bud Yorkin nel 2011 i diritti per lo sviluppo del franchise, la piccola casa di produzione nel giro di sei anni è riuscita a coinvolgere la Scott Free Productions, la Columbia Pictures e la Thunderbird Films, mettendo un budget da 150 milioni di dollari (185, secondo alcune indiscrezioni) a disposizione del regista canadese Denis Villeneuve, reduce da un solido percorso autoriale costellato da piccoli e grandi gioielli come La donna che canta, Prisoners, Enemy, Sicario e Arrival.

La missione impossibile che gli è stata assegnata con il gruzzolo? Riaccendere la luce di uno dei film più influenti nella storia del cinema, che anno dopo anno e decennio dopo decennio, attraverso successive rielaborazioni e revisioni, si è guadagnato lo status di capolavoro indiscusso della settima arte.

In questa operazione Ridley Scott si è ritagliato un ruolo da produttore, che da qualche tempo a questa parte sembra adattarsi meglio alle sue ambizioni, specialmente quando riesce a tenersi lontano dalla cinepresa (pensiamo alla serie The Man in the High Castle, tratta sempre da un romanzo di Philip K. Dick, oppure al film Morgan diretto dal figlio Luke, che può essere guardato come una sorta di preambolo – volutamente molto vago e sfumato – delle vicende di Blade Runner e anche di questo Blade Runner 2049).

Mentre invece tornava a occuparsi della sceneggiatura Hampton Fancher, tra i primi a rendersi conto del potenziale cinematografico implicito nel romanzo di Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? (in italiano tradotto sia come Il cacciatore di androidi che, in tempi più recenti, Blade Runner o Ma gli androidi sognano pecore elettriche?) e a impegnarsi per trarne prima un copione e poi, battendosi contro la maledizione di un progetto che sembrava condannato al limbo delle opere incompiute, una pellicola.

Questa volta Fancher è stato coadiuvato da Michael Green e a entrambi va riconosciuto il merito di aver coniugato la logica evoluzione dei nodi drammatici del precursore con l’inevitabile rinnovamento estetico richiesto per la riuscita dell’operazione.

Confermati i capisaldi, non deve essere stato facile rimpiazzare le eccellenze di cui si era circondato Ridley Scott nell’82, ma in almeno tre dei comparti fondamentali la produzione ha assicurato a Villeneuve alcuni tra i migliori professionisti in circolazione: Joe Walker al montaggio (Blackhat, Arrival), Dennis Gassner alla scenografia (recentemente al servizio del nuovo corso di 007) e soprattutto Roger Deakins alla fotografia (dopo ripetute collaborazioni con i fratelli Coen, già al fianco di Villeneuve per Prisoners e Sicario), rappresentano delle garanzie assolute. Impossibile non apprezzare i rispettivi contributi: la gestione del ritmo alterna con saggezza momenti di distensione e fasi più sincopate per irretire lo spettatore, assecondando lo sviluppo che si fa via via più serrato mentre l’indagine entra nel vivo; e d’altro canto il dosaggio delle luci, la scelta delle diverse dominanti cromatiche per caratterizzare l’atmosfera, le panoramiche maestose del caos urbano e delle megastrutture che vi incombono, conferiscono alla pellicola una cifra estetica che non ha davvero niente da invidiare a Blade Runner.

In questo incrocio di tradizione e innovazione Blade Runner 2049 riesce allo stesso tempo a tenersi fedele allo spirito inconfondibile e allo stile unico di Blade Runner e a esprimere una propria personalità riconoscibilissima.

Sono trascorsi trent’anni dalla notte in cui il cacciatore di taglie Rick Deckard (Harrison Ford) del Dipartimento di Polizia di Los Angeles ritirò dalla circolazione un’intera pattuglia di replicanti ribelli guidati dal carismatico Roy Batty (Rutger Hauer), per poi far perdere le proprie tracce portando con sé un replicante di ultima generazione. Lo stesso Eldon Tyrell gli aveva confidato che Rachael (Sean Young) era un esemplare speciale e Deckard sperava di ricostruirsi con lei una nuova vita lontano dalla città e dai suoi ex-colleghi.

Ma non c’è tempo per rivangare il passato, né per ricomporre ciò che è accaduto nel corso di questo lungo lasso di tempo. Più avanti scopriremo che proprio in conseguenza degli eventi di quella notte, qualche anno più tardi, un’organizzazione di replicanti ribelli provocò un collasso tecnologico su scala globale (storia raccontata in uno dei tre cortometraggi che hanno accompagnato il lancio del film, intitolato appunto Black Out 2022 e diretto dal maestro dell’animazione giapponese Shinichiro Watanabe, creatore di Cowboy Bebop). Ormai sull’orlo della rovina, la Terra fu salvata dal magnate Niander Wallace (Jared Leto) e dalla sua compagnia, proprietaria dei brevetti di bioingegneria che permisero all’umanità di sconfiggere la fame (e qualcosa del suo personaggio già la conosciamo da un altro corto, 2036: Nexus Dawn, diretto proprio da Luke Scott).

L’attacco ci catapulta subito nel mezzo di una tranquilla azione di caccia. L’agente K (Ryan Gosling) è un replicante di nuova generazione incaricato di ritirare i vecchi modelli ancora in circolazione. Scova il suo prossimo obiettivo, Sapper Morton (Dave Bautista, il protagonista del terzo corto, sempre a firma di Luke Scott, 2048: Nowhere to Run), in un impianto per le colture proteiche fuori città ed esegue il suo compito. Ma prima di rientrare alla base K scopre per caso una cassa seppellita tra le radici di un albero rinsecchito e, incisa nel legno dell’albero stesso, una data che gli ricorda qualcosa: 10 giugno 2021. È la stessa che era incisa sulla base di un cavalluccio di legno che da bambino – nella finzione dei suoi ricordi – era il suo unico gioco. Nella cassa gli esperti della scientifica rinvengono i resti di quella che si scopre essere una donna. Non una donna qualunque: una replicante, morta dando alla luce un bambino. Questa scoperta attira le attenzioni della Wallace Industries, che attraverso Luv (Sylvia Hoeks), l’implacabile replicante che rappresenta gli interessi del magnate, inizierà una stretta sorveglianza ai danni dell’agente K. Mentre K, ignaro di tutto, sprofonda nella spirale della paranoia mentre segue le tracce del bambino scomparso per eliminarlo su ordine della sua comandante, l’irremovibile Madame (Robin Wright), e per cancellare con lui ogni traccia di quello che Morton, prima di essere ritirato, ha definito non senza ragioni “un miracolo”.

Impossibile aggiungere altro senza rovinare lo spettacolo a quanti ancora non dovessero aver visto il film. Basti dire che Villeneuve e i suoi autori tradiscono la comune passione per il film culto del 1982 fin dall’inizio e in ogni minimo particolare.

Quello che è interessante notare è che riescono a omaggiare il capostipite, divenuto ormai un classico, con grande intelligenza. Per esempio, se Blade Runner lasciava in sospeso fino all’ultimo i dubbi sulla natura dello stesso Deckard, qui viene messo da subito in chiaro che K è un replicante, e non un replicante qualunque, bensì uno dedito al ritiro dei suoi simili, rei di appartenere a modelli antecedenti all’introduzione dei replicanti Wallace e di essersi avvantaggiati del Blackout e della cancellazione degli archivi per confondersi tra gli umani stessi. Il ribaltamento non toglie tuttavia pathos, anzi, proprio giocando sulla sottrazione e concedendosi tutto il tempo necessario per disporre le tessere nella configurazione giusta, Villeneuve arriva a saldare il racconto al rebus sulla natura di Deckard e della realtà stessa, che costituiva il nucleo portante del capolavoro di Ridley Scott.

Nei suoi 163 minuti Blade Runner 2049 regala così all’appassionato un’abbondanza di motivi per riprendere il filo di un discorso che per trentacinque anni non si è mai davvero spezzato. L’insieme fornisce un quadro organico e convincente, ma nelle singole parti la sinergia tra script, montaggio, scene e regia riesce a regalare attimi da brividi.

Memorabili sono la visita agli archivi della Tyrell Corporation scampati alla catastrofe e la progressiva presa di coscienza di K della vera natura dei suoi ricordi, per non dire dell’incontro tra Deckard e K in un casinò abbandonato, sulle note di Can’t Help Falling in Love suonate da un Elvis olografico.

Lo stesso discorso si applica anche alla fotografia di Deakins: sia che debba dare vita alla danza degli ologrammi per le strade di Los Angeles o riprodurre gli effetti della realtà aumentata, sia che venga chiamato a immortalare le gigantesche sculture dalle seducenti forme femminili abbandonate per le strade di Las Vegas, il maestro inglese ci regala campi lunghi di una perfezione pittorica. Istanti di pura, assoluta delizia per gli appassionati, che vedono gli sviluppi del film abbracciare anche due aspetti di grande interesse lasciati fuori da Blade Runner: il primo è il kipple, l’incontrollabile massa di rifiuti che era una delle intuizioni più geniali del romanzo di Dick, che viene qui trasfigurato nell’immensa discarica alle porte di Los Angeles che fa da sfondo a una delle tappe cruciali dell’indagine/regressione di K; l’altro è il movimento clandestino di liberazione dei replicanti, sottinteso nel film di Ridley Scott, una sorta di Underground Railroad del futuro costruita per consentire ai replicanti di tornare sulla Terra e qui di costruirsi (o combattere per) una nuova vita.

En passant, è degno di nota il fatto che entrambi questi elementi comparivano nell’epocale videogioco omonimo sviluppato nel 1997 dai Westwood Studios.

In un cast dominato dalla presenza femminile, non è forse un caso che le migliori performance siano offerte da tre donne. Un po’ strano, forse, che tutte e tre interpretino i ruoli di creature artificiali: Ana de Armas, nel ruolo di Joi, rappresenta un costrutto virtuale commercializzato dalla Wallace con cui l’agente K costruisce un vero e proprio legame sentimentale; Mackenzie Davis (già apprezzata nella serie Halt and Catch Fire) è invece Mariette, una replicante che sopravvive esercitando per le strade dei bassifondi il mestiere più antico del mondo; e per finire Sylvia Hoeks, nei panni di Luv, è l’assistente scrupolosa, efficiente e magnetica del signor Wallace, ma sa trasformarsi all’occorrenza in una letale macchina da guerra, finendo per rubare la scena a ogni apparizione ai ben più navigati ed esperti colleghi.

L’unico personaggio femminile in qualche modo sottotono è quello da cui forse ci si aspettava di più, almeno a giudicare da quanto mostrato nei trailer: la Madame, tenente Joshi, poteva essere sviluppato sicuramente meglio ma qui non si stacca dal cliché e di certo non entrerà nel novero delle prove memorabili collezionate dalla grandissima Robin Wright.

Insieme alla colonna sonora di Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch, efficace nell’amalgamare sonoro d’ambiente e partitura musicale in brani che ricalcano fin troppo fedelmente lo score originale di Vangelis, la scrittura del personaggio è uno degli unici due nei che mi sento di individuare in un’operazione per il resto gestita con il massimo della cura.

Reduce dal successo di Arrival e in procinto di mettersi all’opera su un altro testo sacro per gli appassionati come Dune, Villeneuve conferma il suo talento da autore a tutto tondo. Missione compiuta, quindi? Per rispondere a questa domanda, sarebbe meglio rivolgersi a un non appassionato, a un fruitore occasionale della fantascienza, o comunque a qualcuno di esterno a questo immaginario che a Blade Runner deve così tanto.

L’Alcon sembra avere l’ambizione di rilanciare il franchise costruendo in qualche modo un universo narrativo condiviso da media diversi, e per la riuscita di questo progetto dovrà senz’altro ampliare la base dei fan, un po’ com’è riuscita a fare la HBO con Game of Thrones o Westworld. Di sicuro si può affermare che il mondo di Blade Runner ha ancora molto da raccontare e mostrare e, da cultore della pellicola originale, non posso fare a meno di augurarmi che gli artefici di questo miracolo siano motivati a proseguire lungo la strada che hanno appena intrapreso.

Solo più avanti lungo il cammino ci renderemo forse pienamente conto della grandezza del lavoro di Denis Villeneuve, il regista che, come prima di lui un replicante a cui siamo tutti molto affezionati, ha osato scalare la piramide per rubare il fuoco sacro agli dei e riportarlo tra gli uomini, sulla Terra.