Nel successivo Monna Lisa Cyberpunk, capitolo conclusivo del ciclo, abbiamo l’ennesimo

ritorno di Molly che, nascosta dietro la nuova identità di Sally Shears, deve prendersi cura in quel di Londra della giovane figlia di un capoclan yakuza alle prese con una imminente guerra di mafia. Un altro ritorno è quello di Angie Mitchell, cresciuta rispetto ai tempi di Giù nel cyberspazio ma ancora ossessionata dalle voci degli spettri che corrono lungo i cavi e nell’etere. Angie è ormai una diva del simstim, il circuito delle esperienze simulate registrate su supporto digitale e vendute come stimolo neurale per miliardi di accaniti consumatori: una sorta di reality show in onda direttamente nella testa dello spettatore. Ma i suoi datori di lavoro le hanno scombinato gli impianti, che adesso la stanno lentamente portando alla morte. Come morto crede che sia Bobby, in realtà connesso ventiquattr’ore su ventiquattro a un sofisticatissimo hardware cibernetico (chiamato, evocando Borges, l’Aleph), che lo tiene ininterrottamente in rete. A prendersi cura delle sue funzioni vitali di base è uno stravagante artista che tira fuori le sue opere dai rottami meccanici e vive in una fattoria decadente sperduta nel mezzo della Rust Belt (letteralmente Cintura della Ruggine), capovolgimento prospettico della Corn Belt (la zona degli USA coltivata a cereali) e riproposizione dell’elliottiana Landa Desolata al contempo. E poi c’è Monna Lisa, l’anti-eroina eponima, prostituta straordinariamente somigliante ad Angie e per questo intrappolata nei congegni di un’oscura macchinazione.

Gibson prosegue attraverso le storie dei suoi personaggi la critica al sistema neoliberista e postcapitalista (o ipercapitalista), regalandoci un approfondimento delle riflessioni che già venivano proposte nei primi racconti (imprescindibile, a questo proposito, New Rose Hotel): “Ricordò che Porphyre una volta aveva sostenuto che le grandi corporazioni erano completamente indipendenti dagli esseri umani da cui erano composte. La cosa le era sembrata del tutto ovvia, ma Porphyre aveva insistito nel dire che lei non aveva afferrato la premessa fondamentale del discorso”. E malgrado la proliferazione di linee narrative riesce a tenere la materia sotto controllo, sospendendo il tono del racconto in una dimensione crepuscolare che genera un contrasto volontario tra la dimensione minimale dei singoli protagonisti e il meccanismo cosmico di cui ciascuno di loro è ormai parte: il cyberspazio diventa il non-luogo condiviso della consapevolezza umana, quasi un dispositivo neuroelettronico sintonizzato sul canale di trasmissione dell’inconscio collettivo.

Il disprezzo del corpo che era di Case compie un passo avanti e si trasforma nel rifiuto di Bobby/Count Zero, che vive connesso senza interruzioni alla rete ed è il primo vero colono umano del cyberspazio, un precursore per l’umanità ormai proiettata verso il passo finale. Se la matrice di Neuromante rifletteva lo spostamento dell’attenzione dall’oggettività della materia alla percezione soggettiva di spazi virtuali resi oggetti dalla condivisione, al termine di questa scorribanda letteraria la tensione al divenire che è propria della storia e del mondo si è ormai esaurita: l’esperienza del Conte Zero è una trasposizione in chiave futuristica della più classica delle ricerche, la sete di conoscenza e sapere che già Dante aveva voluto vedere nell’attitudine alle peregrinazioni di Ulisse. Conte Zero, novello Odisseo della connessione, è l’Uomo Nuovo, abitante di un mondo che si è ormai risolto “nel dispiegamento di un codice nella sfera della comunicazione”.

È un concetto che si sposa perfettamente con la Teoria della Singolarità Tecnologica di Vernor Vinge , una barriera che si interpone tra l’uomo e il suo futuro. Ogni tentativo di previsione è irrimediabilmente destinato a scontrarsi con l’orizzonte degli eventi storico.

Per questo, probabilmente, scritta la parola FINE al ciclo dello Sprawl Gibson preferisce voltarsi indietro. E ricominciare daccapo.

(Continua e finisce sul prossimo numero... end of connection)