Di William Gibson, sessantaquattrenne americano naturalizzato canadese, gli appassionati fantascientifici sanno tutto. A partire dai primissimi racconti della fine degli anni Settanta, in cui già lasciava intravedere la sua visione onirica e frammentata del futuro, al successo mondiale di Neuromante, romanzo con il quale ha praticamente inventato il cyberpunk (insieme a una folta covata di altri scrittori). Negli ultimi anni Gibson ha un po' abbandonato la fantascienza tecnologica pura, per quanto intrisa di riflessioni sociali, per dedicarsi a un genere di frontiera, una sorta di iperrealismo prossimo venturo di cui i suoi ultimi romanzi (compreso l'ultimo, Zero History, non ancora pubblicato in Italia) sono imbevuti. Ma non ha affatto dimenticato il genere che lo ha lanciato nel firmamento letterario internazionale, e soprattutto non ne ha perso la passione. Prova è un articolo pubblicato recentemente dalla versione online di The New Yorker, e la cui versione originale si trova tra le Risorse in rete, in cui Gibson ripercorre i momenti e le atmosfere che lo hanno indirizzato a scrivere di science fiction.

Gibson mette subito in evidenza il suo impriting fantascientifico dell'infanzia, fatto non di romanzi o racconti ma di immagini: le finiture cromate della vecchia Oldsmobile Rocket 88 del padre, i modellini astronautici fabbricati in serie, i giocattoli e le illustrazioni. Ciò che Gibson definisce "le semiotiche culturali e industriali dell'America degli anni Cinquanta", che affascinavano la sua immaginazione di bambino e che probabilmente hanno ispirato il suo modo barocco e immaginifico di descrivere per immagini, come nell'esemplare racconto Il continuum di Gernsback. Era lo zeitgeist di quegli anni, in cui sembrava che l'avventura del futuro fosse vicina, e che portò Gibson, a soli cinque anni, a litigare con un conoscente per via di un libro illustrato che il piccolo William stava leggendo, The Conquest of Space di Willy Ley. L'uomo sosteneva che era impossibile arrivare nello spazio, provocando le ire di Gibson. Sappiamo poi come è andata, ma ciò dimostra solo che per molti americani era ancora difficile, in un'atmosfera opprimente da guerra fredda, comprendere appieno la portata di ciò che si stava delineando.

Fu solo più tardi, a metà degli anni Sessanta, che Gibson si avvicinò ai romanzi. Per un adolescente che viveva i conflitti dell'America di quel decennio, la scoperta di autori come Alfred Bester, Fritz Leiber, Robert Sheckley, Theodore Sturgeon e molti altri, fu l'aprirsi di orizzonti radicalmente diversi, in cui il futuro poteva evolversi seguendo linee e modelli differenti. Pur notando come molta fantascienza di quegli anni, anche di qualità, riproducesse lo stesso meccanismo che Gibson definisce "paranoica e indifferente monocultura bianca", predominata dal classico rappresentante della borghesia WASP che era ed è il tratto comune degli USA, Gibson è riuscito a distinguere ciò che autori diversi avevano di diverso da dire, trovando conforto, come lettore, nel sapere che esisteva un modo diverso di vedere le cose e autori che lo scrivevano.

Fu la personale Golden Age di Gibson, accompagnata da autori come James G. Ballard, Michael Moorcock, Samuel R. Delany, Ursula K. LeGuin, e più tardi William Burroughs e Jack Kerouac, a testimoniare di come la fantascienza possa nascere anche da autori mainstream. Tutti insieme hanno contribuito a definire una sorta di "alterità" (otherness in originale) nella percezione di Gibson, derivata dalla percezione naturalmente "altra" che solo la letteratura, e specificatamente la fantascienza, può fornire. E che lo ha reso la persona che è ora. Gibson usa la metafora del fiume e dei suoi affluenti per dire di come la sua vita sia confluita in quel gigantesco racconto che si chiama letteratura; incontro che è stato, in definitiva, fortuito ma fondamentale, come la gran parte delle cose che succedono. Cose fantascientifiche, naturalmente.