Francesco Verso
Francesco Verso

Francesco Verso è, ex-aequo con Sandro Battisti, il vincitore del Premio Urania 2014 con il romanzo Bloodbusters, pubblicato in Urania con il titolo Il sangue e l'impero. Scrittore tra i più raffinati del nostro panorama nazionale, Verso aveva già vinto il premio Urania nel 2008 con il romanzo E-Doll, uscito sulla collana della Mondadori l’anno dopo. Nel 2013 pubblica con Delos Book il romanzo Livido, vincitore del premio Odissea. Dal 2014 Verso è il promotore di Future Fiction, una collana edita da Mincione Editore che pubblica autori da tutto il mondo.

Lo abbiamo intervistato in occasione dell'uscita sull'Urania n. 1624, dal titolo Il sangue e l'impero, del suo romanzo Bllodbusters.

Sei stato finalista nel 2004 con Antidoti umani, poi vincitore con e-Doll nel 2008 e ora per la seconda volta hai vinto il premio Urania con Bloodbusters. Che cosa significa per te rivincere il premio Urania?

Significa continuare a crescere, consapevole del fatto che ogni romanzo – dal momento del suo concepimento fino alla ricerca di un editore – è sempre un rischio. Infatti, sebbene pubblicare sia diventato più facile che in passato (tra piccoli editori e autopubblicazione il mercato si è aperto ed è quasi privo di barriere all’ingresso), raggiungere un pubblico numeroso, esperto ed appassionato come quello di Urania non lo è altrettanto. D’altra parte, rivincere il premio Urania mi ha convinto di aver fatto la scelta giusta, quando nel 2009, dopo essere stato messo in mobilità da una multinazionale, ho deciso di non cercare più lavoro nel campo dell’informatica ma di intraprendere il mestiere della scrittura professionale.

Parliamo di Bloodbusters. Come è nata l'idea di fondo del romanzo, ossia che le tasse vengano pagate con versamenti di sangue?

L’idea è nata dall’unione di due concetti: il primo è stato il desiderio di raccontare una storia di vampiri senza alcun riferimento alla letteratura gotica, né all’ondata di vampirismo editoriale che spopola da anni in libreria. In realtà volevo proprio prendere in giro i vampiri. Il secondo concetto invece è arrivato dopo l’ennesimo aumento delle tasse. Così ho deciso di cavalcare il famoso detto popolare: “Ci volete togliere anche il sangue”. Nel romanzo ho usato numerosi cliché, luoghi comuni e proverbi per costruire una storia grottesca, del tutto simile alla realtà paradossale in cui ci ritroviamo a vivere negli ultimi anni. E Roma (o la Lupa Eterna come la chiamo nel romanzo) con la sua imperturbabile decadenza, la sua arroganza saccente, la sua ipocrisia millenaria – senza neppure scomodarsi a citare gli scandali e il malaffare dei nostri giorni – mi è subito parsa come il luogo ideale dove ambientare le vicende dei terribili esattori ematoriali e dei loro antagonisti, i famigerati Robin Blood.

Nel romanzo, il sangue regola i rapporti economici e sociali. È un'idea che trovo molto interessante e che, a mio avviso, hai sviluppato in modo credibile. Pensi che nel futuro l'economia possa trovare un sostituto, reale o virtuale, ai soldi?

Me lo auguro. Da qualche anno m’interessa il fenomeno delle criptomonete come i bitcoin oppure le forme di riconoscenza e “apprezzamento” virtuali come i kudos. Credo più nel valore d’uso che nel valore di scambio di una moneta, senza dimenticare che alla fine il concetto stesso di denaro è puramente astratto e si basa su una consuetudine accettata da tutti e mai messa in discussione da nessuno. Però a me piace dubitare dell’indubitabile.

Il protagonista è Alan Costa, un esattore ematico, un bloodbuster per l'appunto, che lavora per un'agenzia privata che va a caccia di evasori. È un ex-militare, ma sembra irrequieto un po' per tutto il romanzo. Lavora come esattore, a capo di una squadra, ma non sembra poi così felice del suo ruolo nella società. Raccontaci un po' di lui…

Alan Costa è un uomo come tanti: campa facendo un lavoro poco gratificante, ha un mutuo da pagare, una ex fidanzata che lo critica, e tuttavia non ha il coraggio di cambiare vita. L’incontro con Anissa Malesano e suo figlio Nicola però, lo spingerà a redimersi e a compiere quel passo che non si è mai sentito di fare. L’idea, sebbene semplice in teoria anche se più difficile nella pratica, è che tutti hanno bisogno di una mano, se non proprio di uno spintone come nel caso di Alan, per convincersi di potercela fare, uscire allo scoperto e iniziare a cambiare. Più volte nel romanzo, l’elemento che risulta vincente è proprio la forza della squadra, del gruppo o della famiglia. Insieme c’è speranza, da soli la certezza della sconfitta.

Nel corso delle sue avventure, Costa s'imbatte anche in un gruppo di anarchici, denominato Robin Blood, che praticano riti di massa che prevedono donazioni volontarie di sangue a favore di tutti coloro che ne hanno bisogno. C'è qualche gruppo anarchico o organizzazione non governativa o gruppo di dissidenti da cui hai preso ispirazione, o è tutto frutto della tua fantasia?

Non c’è un gruppo o un’organizzazione in particolare, ho preso spunto dalla mia breve esperienza giovanile in Greenpeace e ho tratto ispirazione dal lavoro di Medici senza frontiere. Più che altro mi piaceva ribaltare il concetto di evasione fiscale, trasformare i buoni in cattivi e viceversa, rendendo il fenomeno ambiguo com’è nella realtà per poi inserirlo nel contesto più ampio del mercato degli emoderivati e della funzione sociale sia della donazione che del prelievo di sangue.

Alan Costa intreccia un rapporto con Anissa, una seguace dei Robin Blood, e poi finisce per prendersi cura di suo figlio. Ho trovano molto bello il rapporto che s'instaura tra Costa e Nicola, un ragazzino che non solo non ha un padre, ma che è praticamente lasciato in balia di sé stesso anche dalla madre. E poi incontra Alan Costa e ci si aggrappa in qualche modo. Come se fosse alla ricerca di una figura genitoriale. È così?

Sì, è così, perché Nicola ha tanto bisogno di un padre quanto Alan di un figlio. E allora, nonostante non ci siano legami diretti di parentela tra i due personaggi, il loro rapporto scivola in maniera naturale e quasi inconsapevole verso la realizzazione dei reciproci desideri; peccato che ci sia Anissa nel mezzo a complicare le cose in modo terribile.

Descrivi una Roma, e quindi un'Italia, non troppo avanti nel futuro, eppure, leggendo il romanzo, mi è sembrata molto allucinata, quasi “felliniana”. È così che l'avevi immaginata fin dall'inizio?

È la prima volta che ambiento un romanzo a Roma, la città dove non sono nato,

ma in cui sono cresciuto e ho sempre vissuto, tranne che per alcuni anni trascorsi all’estero durante gli studi. Forse ho avuto bisogno di una certa maturità per affrontare la mia città perché Roma va capita, perché non si fa amare facilmente, perché ti respinge, ti rifiuta, t’illude e confonde. È una città mostruosamente bella e mostruosamente brutta, una città che ti avvolge nel profumo della storia, dell’arte e della cultura e ti soffoca con l’ignoranza, i miasmi della spazzatura e i piccoli e grandi sotterfugi dei suoi abitanti. Volevo raccontare una Roma che eccede nei fatti e incede nel portamento, una Roma senza più un centro storico, un luogo divenuto inaccessibile ai comuni romani, se non si mettono addosso i panni del turista; una Roma goliardica e sbruffona, popolata da orde di cialtroni di ogni risma e colore ma anche di gente che resiste e lotta, come per esempio i Robin Blood, rare isole d’umanità in un oceano di malaffare imperante.

Il tuo ultimo romanzo, Livido, edito dalla Delos Books è uscito anche in Australia con il titolo di Nexhuman. Pensi che Bloodbusters possa piacere ad un pubblico internazionale? C'è, secondo te, all'estero fame di storie italiane di fantascienza?

Lo spero, visto che Bloodbusters è già stato tradotto in inglese. La storia risale al 2011 e adesso che ha vinto un premio importante come l’Urania, le probabilità aumentano. All’estero la fantascienza italiana è sconosciuta e nessuno sa che esiste, vuoi per problemi di traduzione, di mentalità poco lungimirante e anche di progettualità. L’editoria italiana da molti anni non remunera più adeguatamente chi ci lavora e quindi – come logica conseguenza – l’intero settore non brilla per professionalità, impegno e dedizione. Senza veri professionisti, senza editor che scovano talenti e si aggiornano, senza libri pubblicati solamente in base alla loro bontà, e in ultima analisi, senza una filiera in grado di selezionare i migliori e disincentivare le cattive gestioni, il mercato è destinato a galleggiare in questa specie di limbo incolore e insapore. Per scovare ottimi libri di fantascienza italiana – che ci sono eccome – bisogna cercare con cura e attenzione. Tuttavia, nella mia piccola esperienza, posso dire che il mercato internazionale non ha pregiudizi nei confronti della fantascienza italiana, anzi, c’è apertura verso molti paesi non-anglofoni come dimostrato dalle storie pubblicate sulle riviste Clarkesworld o Lightspeed, oppure su antologie come The Apex Book of World SF: nell’ultima edizione, la quarta, c’è un racconto di Samuel Marolla. Qualcosa di importante sta succedendo nel mondo anglofono, ma sta a noi alzare la mano e portare avanti le nostre proposte culturali. Altrimenti, un mercato come quello americano, dove le traduzioni da tutte le lingue del mondo non arrivano a coprire il 3-4% del totale, perché dovrebbe avere bisogno di noi?

Quali progetti hai dopo la pubblicazione di Bloodbusters?

Sto finendo di scrivere un romanzo composto di due libri, dal titolo I Camminatori: il primo romanzo, già completato, s’intitola I Pulldogs mentre il secondo si chiamerà No/Mad/Land. La storia ruota attorno all’invenzione dei naniti – nanomacchine dotate di intelligenza artificiale – e la conseguente sostituzione del cibo. Il romanzo segue le vicende di un gruppo di persone che grazie ai naniti, alla stampa 3D e al cloud computing abbandonano la vita sedentaria della città per intraprendere un percorso di contro-urbanizzazione tornando a popolare siti abbandonati mediante una sorta di nomadismo tecnologico del XXI secolo. È uno scenario molto complesso che mi ha affascinato tanto da impegnarmi in studi e ricerche da almeno cinque anni.

Inoltre accanto alla scrittura, da un paio d’anni curo una collana di narrativa di fantascienza, Future Fiction, per la Mincione Edizioni, dove pubblico autori provenienti da tutto il mondo con l’intento di rappresentare la “biodiversità narrativa”. Il progetto sta andando bene, ne parlerò agli Utopiales di Nantes alla fine di ottobre, e poi alla prossima EuroCon 2016 di Barcellona. Credo che esistano le condizioni per far conoscere ai lettori italiani di fantascienza e fantastico quanto di buono venga scritto in lingue diverse da quella inglese e in culture che, per storia ed economia, non vengono quasi mai prese in considerazione.