Partiamo con due parole chiave, una per la storia, una per l’autore.

Big Dumb Object, grosso oggetto muto: l’espressione, ci dice l’ultima edizione online della Encyclopedia of Science Fiction, è coniata nel 1981 su Foundation, in un articolo retrospettivo sulla fantascienza anni 70, dalla editor e critica britannica Roz Kaveney. Romanzi come Ringworld di Larry Niven (1970), Rendez-vouz with Rama di Arthur C. Clarke (1973) e Orbitsville di Bob Shaw (1975) hanno tutti in comune il ritrovamento di enormi (la dimensione è tutto, in questi casi) manufatti, costruiti e abbandonati da alieni ormai scomparsi, di cui si conosce solo quella traccia, prova di un livello intellettuale gigantesco. Artefatti talvolta grandi come mondi, che non offrono nessun aiuto ai “nostri” esploratori. Con questi oggetti, la SF riscopre l’incommensurabile, il sublime: il mistero.

New space opera: se Niven aveva anche un’agenda ideologica conservatrice nella sua hard SF (che influenza tanta fantascienza militarista), negli Usa gli scenari spaziali tornano sempre più in primo piano negli anni 80. Serie come Gateway di Frederik Pohl (1979), Eon di Greg Bear (1985), Titan di John Varley (1979, dove il big dumb object diviene decisamente smart), e tante opere di autori e autrici come David Brin, Lois McMaster Bujold, C.J. Cherryh, Nancy Kress, Vonda N. McIntyre, Vernor Vinge, il primo Card, molto Dan Simmons, riprendono a parlare di viaggi cosmici, incontri con gli alieni – a immaginare il futuro. 

Contemporaneamente, in Gran Bretagna, l’assoluto rinnovatore della space opera – e con un’agenda politica decisamente progressista – è Iain M. Banks: i suoi romanzi sull’universo “post-scarsità” della Cultura sono le avventure etiche di (ci ricordiamo di Ursula Le Guin?) un’ambigua utopia. Altri nomi: prima di tutti Ken MacLeod, ottimo conoscitore sia del dibattito scientifico sia di quello politico, Colin Greenland e Paul J. McAuley. A una vasta popolarità giungono Stephen Baxter e Peter F. Hamilton. Dal 1991, il fluviale scenario degli Xeelee di Baxter presenta una galassia in cui l’umanità non è più che un periferico Terzo Mondo, lontano dalle regioni più avanzate, alla ricerca di un ruolo come potenza minore: in questa attenzione al rapporto tra metropoli e margini dei suoi imperi, la space opera made in UK sceglie di porsi in una tradizione che parte da lontano, da Stevenson e Conrad oltre che da Wells. Più sfrenatamente avventuroso e senza preoccupazioni stilistiche è Hamilton, che a partire dal ciclo dell’Alba della notte (1996-99) diventa il massimo esponente della space opera extralarge, con romanzi che spesso superano le 1000 pagine; fracassone come il suo omonimo americano dell’era pulp, Edmund Hamilton, continua a distruggere e creare mondi con la Commonwealth Saga (2004-05) e la Void Trilogy iniziata nel 2007. E pensiamo a vecchi leoni della New Wave come il critico John Clute, il cui unico romanzo SF, Appleseed (2002), è un tributo a un secolo di avventura spaziale con giochi verbali affascinanti e allusivi, e come M. John Harrison con il barocco, complesso Light (2002). E poi il primo Charles Stross, Ian McDonald, Justina Robson… e la lista potrebbe includere, da altre parti del mondo anglofono, Julie Czerneda, Karl Schroeder, Greg Egan…

Per chi ha voglia di approfondire il filone e conosce l’inglese, due antologie ragionate sono The Space Opera Renaissance curata da David G. Hartwell e Cathryn Cramer nel 2006 (con una prospettiva più storica, e un’enfasi sulla SF americana) e The New Space Opera curata da Gardner Dozois e Jonathan Strahan nel 2007. Fra le tante forme di SF, forse questa è la versione più visionaria e indispensabile, che senza remore si pone l’obiettivo di competere con la spettacolarità della fantascienza dei media visuali (che almeno in alcune serie tv e nel fumetto si è dimostrata capace di andare nel profondo).

Su tutta la SF degli ultimi decenni è illuminante l’osservazione di John Clute: la sua differenza rispetto a quella che lui spesso chiama “Prima Fantascienza” sta nella ricerca di “spiegazioni multicausali” nella presentazione della complessità dei mondi. Nella tradizione wellsiana e poi nel filone principale nato sui pulp Usa, c’è una fiducia assoluta nella capacità di espansione della società e della mente umana – che essendo assoluta può solo trasformarsi in pessimismo totale. La nuova SF che nasce con gli anni Ottanta (ma i precursori ovviamente sono tanti), invece, accetta l’incontro con l’alterità, la presenza di altri soggetti, e tenta di concepire futuri radicalmente diversi. Quello che Darko Suvin chiama novum, allora, non può più essere unico, sostenuto da una quotidianità familiare e stucchevole; tutto deve essere differente: tecnologia, scienza, società, politica, economia, antropologia, cultura, sensibilità, psicologia, percezioni – tutte moltiplicate per ogni biologia, ogni ecologia, ogni comunità. Politicamente, una SF senza “destini manifesti” imperialisti, consapevole che sia l’utopia sia la distopia vanno immaginati come concetti dinamici, sempre aperti al cambiamento; narrativamente, una SF ad altissima definizione.