Si può parlare degli errori e degli orrori che hanno caratterizzato la nascita del cristianesimo? Evidentemente si può, come si può e si deve parlare della storia e dei chiaroscuri di ogni religione. Ma è difficile farlo soprattutto in Italia, patria del cristianesimo delle origini e del cattolicesimo attuale, nonché paese in cui l'esercizio del diritto alla critica (di chi non è credente o appartiene ad altre fedi) verso la religione di cui purtroppo la nostra cultura è imbevuta, viene automaticamente interpretato come attacco da respingere senza compromessi. Non stupisce allora che Agora, film girato alla fine del 2008 e presentato nel mondo (compreso il festival di Cannes) nel 2009, sia riuscito a raggiungere le nostre sale solo da pochi giorni, grazie alla distribuzione di Mikado.

Ma cos'ha di speciale Agora, produzione spagnola girata in inglese per il mercato internazionale (e si vede)? Intanto il ritorno alla regia del cileno Alejandro Amenàbar, dopo l'horror rarefatto di The Others e il sontuoso dramma Mare dentro. E poi il tema scelto dal regista, anche autore della sceneggiatura: le origini oscure del cristianesimo organizzato e il modo con il quale ha imposto il proprio dominio temporale sull'Impero romano. E, non ultimo, il ritorno del peplum, filone di film storici legato ai mitici kolossal degli anni cinquanta e sessanta che, se aggiornato in chiave moderna, potrebbe ancora rappresentare un'importante fonte di ispirazione per autori e registi.

IV secolo, Alessandria d'Egitto. Nella città sotto il dominio romano convivono, pur con qualche difficoltà, pagani, ebrei, cristiani, scienziati e filosofi, in una quotidianità centrata sull'agorà (piazza) di modello ellenico e sulla leggendaria biblioteca, la più vasta e importante del mondo conosciuto. Il racconto è incentrato sulla vita di Ipazia (Rachel Weisz), figlia del filosofo Teone (il veterano Michael Lonsdale). Matematica, astronoma e filosofa greca, Ipazia dedica le sue energie all'insegnamento e alla ricerca del principio che regola il moto del sole e dei pianeti. Regolando la propria esistenza sull'assoluta libertà di pensiero e assenza di pregiudizi, Ipazia insegna indifferentemente ad allievi di nazioni e credi diversi, tra cui il greco Oreste (Oscar Isaacs), futuro prefetto della città e di cui respinge le offerte d'amore, e Sinesio (Rupert Evans), fervente cristiano e destinato alla carriera ecclesiastica. Le vicende di Ipazia si incrociano inevitabilmente con i violenti fermenti in cui si dibatte la città, e originati dall'ambizione e dalla mancanza di scrupoli di Cirillo (Sami Samir), vescovo d'Alessandria, e dei parabolani, ordine di monaci fondamentalisti guidati dal fanatico Ammonio (Ashraf Barhom). La strategia di Cirillo è chiara: provocare le altre fazioni in modo da causare una reazione violenta, per poi scatenare la ritorsione dei parabolani, favorito in ciò dalla compiacenza delle autorità romane. Si assiste così nel trascorrere degli anni prima alla cacciata dei pagani e alla distruzione dei loro simboli, seguita dallo storico sacco della biblioteca; e successivamente alla distruzione degli ebrei. A Cirillo resta un ultimo ostacolo da abbattere per assicurarsi il dominio totale del cristianesimo su Alessandria, ed è proprio Ipazia, testarda e isolata nel proseguire le proprie ricerche e nell'affermare la sua unica fede nella ragione, ma che conserva un forte ascendente sul nuovo prefetto Oreste. Le vicende storiche si intrecciano con quelle personali dei protagonisti tra cui l'ex schiavo di Ipazia, Davo (Max Minghella, figlio del regista Anthony), segretamente innamorato di lei e passato tra i parabolani dopo l'incendio della biblioteca.

Agora presenta tutti i pregi e i difetti del peplum classico: l'imponente ricostruzione di Alessandria e le grandi scene di massa, tra i primi; una certa semplificazione nella narrazione e nei personaggi e qualche concessione di troppo allo spettacolo, tra i secondi. La ricostruzione storica è però sostanzialmente corretta, pur con le semplificazioni già accennate, per cui i pregi compensano ampiamente i difetti. La regia di Amenàbar è pulita e professionale, con qualche lampo di valore: curiosa la scelta, che si ripete alcune volte nel film, di cambiare improvvisamente la prospettiva, con la camera che parte dallo spazio profondo per zoomare vertiginosamente verso il nostro pianeta e poi giù fino ad Alessandria. Un'incursione quasi fantascientifica che presuppone la volontà del regista di inquadrare la minuscola cifra delle credenze umane, al confronto con la realtà fisica di un universo che sostanzialmente ci ignora.

La figura di Ipazia, forse un po' esagerata come scienziata (non sono conosciute opere o studi certamente attribuibili a lei), è centrale per la valenza politica che assume, come punto di equilibrio tra vari mondi. Un punto inevitabilmente destinato a soccombere, ma che pur nella sconfitta vince in quanto simbolo della razionalità e dello spirito di libertà che sopravvive oltre i protagonisti. Il suo mix di tenacia, ragione e sensibilità è ben rappresentato dall'interpretazione convincente della Weisz, che riesce a dare spessore umano ai principi che Ipazia ripete ai suoi allievi ("sono più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono") e che sostiene davanti alla cieca obbedienza imposta dalla religione ("voi non potete mettere in discussione quello in cui credete, io devo"). Mentre i personaggi maschili si dimostrano di volta in volta deboli, irrazionali, violenti, opportunisti, Ipazia rende pienamente l'orgoglio di essere donna in una società maschile avviata a diventare sempre più sessista e arretrata, in cui non c'è posto per la ragione se prima non si mette al servizio della superstizione e del potere.