Giorgio Scerbanenco
Giorgio Scerbanenco
Per chi le cercherà, quelle caratteristiche possono solo emergere dalla lettura di quello che gli italiani scrivono: i tratti italiani (o americani, neozelandesi, algerini, peruviani, venusiani, cardassiani...) sono le cose di cui parla chi scrive SF ed è di lingua italiana. In ucronie e distopie, le ambientazioni italiane sono legione. Presto, fra l’altro, probabilmente qualcuna di queste voci non sarà neppure nata in Italia. Dovremmo considerarlo un problema? Nel giallo italiano, un’autore chiave fu un immigrato ucraino di nome Giorgio Scerbanenco, che scrisse anche ottima SF: insomma, lasciamo perdere le chiacchiere sugli “italiani veri”. Leggiamo la SF italiana, riscopriamola, promuoviamola, facciamo in modo che ogni voce trovi un suo spazio (che secondo i casi potrà essere più ampio o più ristretto, più di massa o più di nicchia) con un’opera di collaborazione che valorizzi le differenze e le particolarità. Tutti insieme forniranno le tracce, l’articolazione e l’evidenza della science fiction scritta da autori e autrici che operano in Italia.

Tu che sei uno studioso di fantascienza, sia italiana sia di lingua anglosassone, come giudichi la science fiction nostrana in confronto a quella di lingua inglese?

La prendo alla lontana. Provando ad abbozzare per Next International una breve storia della SF italiana, partivo da quanto diceva John Clute recensendo per scifi.com la SFWA European Hall of Fame curata dai Morrow (che comprendeva un racconto di Valerio Evangelisti, e grazie a cui un racconto finlandese è entrato in finale al Nebula): “Tendenze del fantastico europeo: un’alienazione così profonda da sembrare solipsismo; surrealismi talmente carichi e pesanti che si finisce col ripensare a New Worlds e versare una lacrima; la sensazione, matura quanto deprimente, che trascendenza e morte siano cose simili, accomunate dal colore grigio; un rifiuto quasi completo di attingere al futuro per le soluzioni; un tropismo (nei racconti più deboli) in direzione dei significati simbolici (si potrebbe infatti quasi affermare che nessuna storia è genuinamente fantastica se non è intesa letteralmente)”.

La parentesi conclusiva di Clute è una provocazione che colpisce nel segno: il dubbio che, alla radice dei riflessi culturali del mondo non anglofono ci sia una diffidenza di fondo verso la costruzione dei mondi fantastici, come se qualsiasi sforzo di dare profondità e articolazione a quei mondi sia un orpello inutile, addirittura di ostacolo per chi punta a una scrittura esteticamente significativa – una diffidenza che trapela in molti accenni alla SF da parte degli intellettuali “ufficiali”. Quantomeno, ammettiamo che Clute descrive il comportamento della SF italiana peggiore: storie schiacciate da un super-io “letterario” (prima il soggetto, l’oggetto e la trama molto dopo), spinte dal malcelato impulso di “trascendere il genere” nella ricerca di accettazione e rispettabilità – e forse anche del rispetto di sé; racconti mimetici con un trucchetto o un accenno marginale; satire nostalgiche e didattiche che prendono di mira tutto ciò che sia collegabile con la modernità (la scienza, la “tecnica”, o il feticcio  dell’“americanità”), men che mai con il futuro. Fortunatamente c’è molto altro, come ho cercato di dire anche in questa intervista