L'impatto

L'Istituto di Cultura Giapponese (il nome originale, un po' più pretenzioso, recita The Japan Foundation) è un elegante edificio posto in uno degli angoli più suggestivi di Roma. A due passi da Villa Borghese, sapientemente sistemato tra l'Istituto delle Belle Arti, la facoltà di Architettura e i Parioli, l'Istituto di Cultura Giapponese è un'isola felice di quiete e di verde nel caotico e demenziale oceano capitolino. Incredibilmente, imboccando la strada su cui sorge (via Gramsci) usciamo addirittura dall'onnipresente serpente di lamiera del traffico, bolgia infernale in cui ogni romano che si rispetti bada bene di trascorrere almeno metà della sua giornata. L'istituto è circondato da un raffinato giardino giapponese, nipponicamente ombreggiato da raffinati aceri giapponesi. Su un raffinato laghetto giapponese, circondato da rocce giapponesi verdi di muschio nipponico, ronzano zanzare samurai, dai pungiglioni affilati come katane. All'interno, tra i materiali d'arredamento predomina il legno. Un paio di minuscoli giapponesi sorridenti, in agguato dietro il vetro della portineria, indicano ai visitatori i locali adibiti alla mostra. Una bacheca intasata da annunci fitti di ideogrammi hatakana introduce alla biblioteca (affollata da altri gnomi con gli occhi a mandorla) e al piano superiore. Uno spietato cartello informa che (divieto inspiegabile, se pensiamo ai comportamenti standard dei turisti nipponici) è assolutamente vietato scattare fotografie.

Ci addentriamo nella sala. Lungo le pareti, a varie altezze, pendono come impiccati teche di vetro contenenti opere di Go Nagai. Brevi didascalie (in italiano, inglese, a volte giapponese) evocano ricordi che sembrano appartenere ormai a un'altra generazione. Ci lasciamo avvolgere dalla nostalgia.

Nonno Mazinga

Giustamente, la mostra apre sui manga che hanno reso celebre il nome di Go Nagai, quelle storie di robottoni cazzuti e maneschi che, quasi tutti transitati sugli schermi delle nostre televisioni, hanno a lungo rappresentato l'archetipo del cartone animato giapponese. Si inizia con Mazinga Z, il nonno di tutti i pupazzi d'acciaio. Le didascalie ricordano che era pilotato da Koji (Rio) Kabuto, che combatteva contro le truppe del Barone Ashura e del Dottor Inferno, e che era andato in onda in Giappone per la prima volta nel 1972. Seguono disegni de Il Grande Mazinga (anno di nascita 1974), spaccamontagne release successiva del precedente, comandato dal meno ingenuo e più antipatico Tetsuya Tsurugi. Si prosegue con Getta Robot (1974), primo esempio di robot componibile, idea felicemente sfruttata dai successivi e vendutissimi Transformer. E ancora, abbiamo una serie di disegni di Jeeg Robot d'Acciaio (1975), il cui pilota (Hiroshi Shiba) non siedeva ai comandi, ma ne diventava (in base a una trasformazione piuttosto incomprensibile) la testa. E poi le immagini di Atlas Ufo Robot (1975), il celeberrimo Goldrake, primo cartoon giapponese ad essere importato in Italia.

Strane sensazioni, acute come pruriti della memoria, colpiscono noi visitatori della mostra. Invincibili, tornano alla mente quei giorni di tanti, troppi anni fa, in cui l'arrivo di Goldrake sugli schermi TV (ancora neppure tutti a colori) sconvolse l'immaginario collettivo dei ragazzini italiani. Riacquistano forma e colore il coraggioso e bellissimo principe (Duca?) Fleed, il suo alter-ego umano Actarus, il dottor Procton, Alcor, Venusia, Rigel, Mizar, Maria, il perfido Zuril, il terribile Vega, tutti i personaggi di un cartoon che era talmente diverso e superiore a ciò che allora passava il convento da affascinare perdutamente ogni giovane spettatore. E torna anche alla mente la perfidia di Mamma RAI, che dopo quell'esperimento geniale e innovativo lasciò all'asciutto di repliche i piccoli fan, costringendoli all'affannosa ricerca su ogni infima TV privata di una dose metadonica di Mazinga o di Jeeg Robot con cui saziare l'inesauribile desiderio... Certo, di fronte alle tavole di Go Nagai, a distanza di tanti anni, ci si domanda cosa diavolo fu a colpirci tanto. L'impatto con la scuola giapponese, di cui per anni considerammo Nagai unico esponente? La cura della realizzazione? Il pathos della storia? La colonna sonora, che prima di allora non avevamo mai ascoltato in un cartoon? Forse... Oggi, con le lenti degli anni a pesarci sugli occhi, e il candore della giovinezza ben lontano alle nostre spalle, possiamo giudicare le opere "classiche" di Go Nagai per quelle che effettivamente erano: cartoon (nonostante la violenza) prettamente per bambini, coi personaggi scolpiti con l'accetta e stereotipati (lo scienziato buono, la figlia bona dello scienziato buono, l'eroe coraggioso con i capelli al vento, il cattivo deforme), puntate fotocopiate, trame inconsistenti e costellate d'incongruenze, romanticismo puritano, dialoghi raccapriccianti, soluzioni tirate per i capelli, in definitiva niente di paragonabile ai veri capolavori della scuola giapponese, che tutti noi scoprimmo solo molto più tardi (Akira, Nausicaa, Alita, Gundam, Star Blazers, solo per citarne alcuni).

I ragazzini di oggi, di fronte ai magli perforanti di un Goldrake o alle tette nucleari di una Venus Alfa, scuoterebbe la testa, e non perché i gusti siano cambiati, ma perché le tante occasioni li hanno resi molto più smaliziati dei loro predecessori. E, forse, non riuscirebbero nemmeno ad afferrare il perché di questo mito vecchio ormai di due decenni.

Nagai l'orrido

Proseguendo la passeggiata lungo le pareti istoriate della mostra, il panorama cambia radicalmente. La seconda parte dell'esposizione è dedicata al Nagai maestro dell'horror. Si tratta di un lato meno conosciuto (almeno in Italia) della personalità dell'artista giapponese, ma un lato che con ogni probabilità è predominante. Personaggi come Cutey Honey, Mao Dante, ma soprattutto Devilman ci permettono di guardare Nagai con occhi diversi.

Devilman, storia dalle tinte fosche, narra di uno studente che, passato a miglior vita, rinasce come demone con l'obiettivo di studiare gli uomini in preparazione di una invasione della Terra; ma il mostro una volta umano scopre la bellezza dei sentimenti, e si converte alla causa del nostro pianeta. Le tavole di quest'opera grondano sangue e horror quanto e più di un romanzo di Clive Barker.

Più simile a opere americane come Spawn