"In tempo di guerra, la verità è tanto preziosa che deve essere sempre preservata da un baluardo di menzogne"

Wilston Churchill

"La capitale del mondo", come fu chiamata Berlino nel 1936, era pronta al grande evento. Il maestoso stadio olimpico si ergeva dall'alto dei suoi settantasette milioni di marchi pagati dalla Reichbank. Goebbels era tranquillo e rilassato. Il suo sogno si stava realizzando. Secondo i suoi conti, nei giorni delle Olimpiadi si sarebbero incassati in valuta estera l'equivalente di cinquecento milioni di marchi. Negli ultimi giorni la popolazione di Berlino era triplicata. La stazione brulicava di persone arrivate in città grazie a migliaia di treni speciali.

Nello stadio costruito dall'architetto Werner March, fece la sua apparizione il tedoforo. Le telecamere della Reifenstahl ripresero con dovizia di particolari ogni singolo movimento dell'atleta. La folla, alla sua vista, smise gli incitamenti; quasi non respirava.

L'uomo che portava la fiaccola accesa a Olimpia vestiva di bianco con l'aquila nera tedesca. Salì i gradini in cemento grigio chiaro e accese il tripode. In un apposito palco Hitler osservò i gesti del tedoforo e, quando la fiamma cominciò a innalzarsi, con un gesto imperiale aprì gli undicesimi giochi olimpici tra gli applausi della gente.

Migliaia di colombe furono liberate nel terso cielo berlinese. Passarono in parata gli atleti dei vari paesi. La giovane e gloriosa squadra ariana, ma anche figure importanti come il nuotatore Jean Taris e il discobolo francese Jules Nöel. Le telecamere indugiarono anche su alcuni atleti americani.

Goebbels osservò con soddisfazione gli eventi, ma presto il suo giocattolo si ruppe. La dimostrazione all'intera umanità della potenza del popolo ariano venne improvvisamente meno.

L'atleta Jesse Owens corse i cento metri in dieci secondi e due decimi, battendo il record del mondo. E poi via via, l'americano infranse un record dopo l'altro fra la costernazione del ministro della propaganda nazista e del suo Führer. - Quel maledetto negro! - si lasciò sfuggire quest'ultimo.

Sul palco d'onore l'ideologo nazionalsocialista Rosenberg richiamò l'attenzione di Hitler con una frase che lo ferì più di una coltellata alla schiena: - E' spiacevole, ma i tedeschi puri fanno fatica a reggere il confronto con questa massa cosmopolita arrivata dagli Stati Uniti.

Anche Goebbels accusò il colpo e cercò di correre ai ripari.

- Mi permetta di dire che le immagini che stiamo girando in questi giorni, semmai, - osservò il ministro della propaganda - mostreranno al nostro grande popolo e a tutto il mondo che gli americani si sono imbastarditi.

Sembrava una frase vergata con la sua penna d'oca alla scrivania; uno scarno e infruttuoso comunicato stampa.

Hitler si rivolse verso l'uomo poliomielitico cercando di analizzare questa diversa angolazione degli eventi, ma il suo sguardo restò torvo. Goebbels abbassò gli occhi e pensò che questi dettagli non sarebbero mai stati raccontati nel suo diario.

La gazzetta dei giochi olimpici, l'Olympia Zeitung, aveva già iniziato a riportare tutti i risultati sportivi, e con venti pfennig chiunque poteva leggere i nomi dei vincitori delle olimpiadi berlinesi. Le tre edizioni del giornale, in tedesco, inglese e francese, non diedero adito al capo della propaganda, Joseph Goebbels, di operare interventi esterni per cambiare il corso dell'informazione. Per la prima volta nella sua vita non poté attuare nessuna campagna di disinformazione. Sarebbe stata un'azione troppo evidente e inutilmente pericolosa. Soprattutto dopo che le telecamere di Leni Riefenstahl ricostruirono il confronto tra Germania e Stati Uniti.