- Non... andiamo fuori, questa settimana?

Scossi negativamente il capo.

- Capisco... - mormorò quasi a se stessa. - Vuoi entrare? - disse quando fummo arrivati.

La seguii in casa senza parlare.

In cucina distese in fretta una piccola tovaglia sulla tavola, dispose piatti e posate, estrasse qualcosa dal frigo e la mise a scaldare. Fu molto rapida. Riempì i piatti e venne a sedersi di fronte.

Mangiammo in silenzio.

Ogni tanto alzava gli occhi dal piatto e mi fissava. Appariva molto stanca e tesa.

Quando finimmo sbarazzò velocemente, depositò piatti e posate nella piccola lavatrice e mi precedette nel soggiorno.

Sedetti sulla stessa poltrona del giorno prima, e lei mi venne in braccio poggiandomi il viso sulla spalla. Restò così, quasi immobile. Finché sentii piccoli sussulti: piangeva in silenzio.

Con il fazzoletto le asciugai gli occhi e le soffiai il naso, poi per farla smettere presi a carezzarle i capelli. Si addormentò a poco a poco, col capo reclinato sulla mia spalla e le braccia abbandonate contro di me. Rimasi immobile.

Ricordai tutte le volte che la sua vicinanza mi aveva comunicato barlumi di diverso. Il suo viso sembrava essersi disteso un po' nel sonno; ma era ancora molto pallida. Dormì a lungo, quasi sempre immobile. Solo verso il crepuscolo, quando accennai ad alzarmi per portarla a letto, si svegliò. Sorrise incerta. - Scusami... - disse.

- Ti lascio, devo andare.

Il sorriso le si spense sulle labbra.

- Aspetta... - disse aggrappandosi alle mie mani. - Resta a mangiare, preparo subito. Mi lavo un momento le mani, prima.

Attesi appoggiato contro la finestra in cucina, sbirciando il buio fuori. Tornò senza più ombra di trucco in un abitino da casa molto semplice, i capelli ordinati. Preparò qualcosa, dispose la tavola e sedemmo.

- Mark - chiese quando finimmo e ci alzammo - non vuoi rimanere, stanotte?

- Devo andare, Lohu.

Mi accompagnò alla porta senza dire più nulla, attese che fossi salito in auto e rientrò.

Li sentii appena spensi la luce. Ma dalla sera prima sapevo che non ci sarebbe stato più caos. E cominciai, ritrovandomi senza immaginare come sistemarli in una struttura di cui mi sfuggiva l'ordine e il significato, ma alla quale la sostanza dei pensieri si adeguava come in un mosaico volumetrico. Non sapevo cosa stavo facendo, né il perché, e neppure se sarei mai arrivato a capirlo e, quindi, a utilizzarlo.

Avvertivo soltanto, man mano che i pensieri si aggiungevano ai pensieri, che era quella l'unica soluzione esatta, sia di ciò che facevo, sia d'ogni aspetto della mia situazione fino ad allora. E avvertivo (densa, compatta in qualche luogo di me o fuori di me) quella costruzione, che potevo quasi palpare, mentre si ingrandiva.

Solo verso il mattino smisi, e mi lasciai andare al sonno. Mi svegliò, verso mezzogiorno, il campanello della porta. Mi gettai addosso una vestaglia e andai ad aprire: era Lohu. Meno pallida e disfatta del giorno prima, tranne che negli occhi.

- Sono venuta... per vedere se avevi bisogno di qualcosa. Non hai ancora mangiato... posso preparare io.

Mi tirai da parte e la feci entrare.

Aveva un vestito molto bello. Andai a prendere una delle sue vestaglie nell'armadio e gliela porsi. - Potresti sporcare il vestito - le dissi. Poi entrai nel bagno.

Quando ne uscii, Lohu aveva preparato la tavola in soggiorno, come altre volte, e l'aveva riempita di fiori. Nell'aria c'erano le note del Capriccio italiano di Ciaikowskij. Entrò spingendo il carrello con i piatti colmi e li posò sulla tavola, uno di fronte all'altro. Non aveva voluto cambiarsi ed era molto bella, in quel vestito. Ma non poteva darmi più di quanto mi avesse già dato. E a me era divenuto insufficiente.