Più compiuto nel trattamento del tema è il dittico composto da The Moon Pool (1918) e Conquest of the Moon Pool (1919, anno in cui le storie sono unite in volume; Il pozzo della luna, Nord 1974 e Classici Urania 271, 1999). Qui si scatena per la prima volta l'immaginazione "colorata" di Merritt, a partire dalla descrizione del pozzo di luce che diventa accesso all'universo sublime fatto di estasi e orrore, di infinita bellezza e infinita mostruosità, in cui si intravede la creatura fatta di sogni, cangiante, radiosa, androgina. Al centro del pozzo, in caverne sotterranee nel Pacifico, c'è un'incarnazione del potere dell'immaginazione collettiva, che gli esploratori (ad accompagnare il botanico Walter T. Goodwin è una ciurma multietnica, ma rigorosamente di razza bianca) interpretano ciascuno a modo suo, come un incontro con mitologie celtiche, nordiche, ecc. Ma lo "Splendente" e i "Silenziosi" si rivelano di natura meno metafisica. D'altra parte, il mondo ultraterreno è allo stesso tempo un mondo inumano, che paradossalmente vibra di "un silenzio [...] pieno di assenza di vita". Sempre nel segno dell'ambiguità, insieme alle descrizioni del "dio-demone", arriva la scienza: la radioattività, frammenti della storia di un mondo che si è probabilmente autodistrutto, un mondo alieno che il narratore paragona al Marte della Guerra dei mondi di Wells, la stirpe di scienziati che si sforza di mantenere in vita il sapere di un'antichissima civiltà.

Il personaggio di Goodwin torna in The Metal Monster (1920; Il mostro di metallo, Fanucci 1994), forse il capolavoro di Merritt, una storia condotta sul filo di una percezione quantitativamente eccessiva ma sempre precaria, di un continuo accumularsi di allucinate descrizioni visive, che offrono rivelazioni sempre parziali, in cui la vertigine dell'estasi e quella del terrore sono impossibili da distinguere con certezza. Ad affascinare profondamente Merritt sono le forme del potere, e soprattutto del potere assoluto, e Il mostro di metallo ne dà una raffigurazione nell'entità collettiva aliena, composta di una moltitudine di componenti metalliche, che domina la razza perduta in una città nascosta in una valle dell'Asia. E' antica l'iconografia che sta dietro al "leviatano" (termine di Merritt) robotico, dalle immagini che accompagnavano le edizioni seicentesche del Leviatano di Hobbes, il classico della teoria dello stato moderno, all'evocazione della ciurma del Pequod, "saldata" insieme in un'unica volontà collettiva sotto il comando di Ahab nel Moby-Dick di Melville. Antichissimo come il Popolo di Metallo che gli ha dato vita, moderno come la meccanicità e la tecnologia raffinatissima che gli dà forma, il mostro di metallo, controllato da una figura femminile, nutre la speranza di conquistare il mondo. Brillante e seducente come la sua padrona, inconoscibile nel sapere che gli ha dato vita, razionale in tutte le sue manifestazioni di perfezione geometrica (soprattutto nelle dimostrazioni belliche), sovrumano e inumano nel suo intelletto, l'Imperatore di Metallo è un mostro di Frankenstein teso all'annullamento dell'individualità, che viene sconfitto dalla sua stessa volontà di inglobare tutto e tutti, controllando le parti del suo corpo anche a distanza. Anche il Leviatano tecnologico (che ha unificato in sé tutta la città del Popolo di Metallo) ha dei limiti, dimensioni che non si possono superare, presenze che non si lasciano assorbire. A distruggerne il corpo e il potere è, dice Merritt, una guerra intestina, che lo dilania dall'interno. E il finale già citato non lascia dubbi: il mostro potrebbe essere una prospettiva per il nostro mondo.