Squillò il telefono. Pietro rispose.

- Come?

"Ah, ok!

"Ciao.

"Purtroppo.

"Cooosa?

"Nooo!

"E' la cazzata più grossa che abbia mai sentito in vita mia.

"No, no!

"E' una stronzata, è una cazzata grossa come il Vesuvio.

"A dopo."

Fissammo Pietro. Disse: - I ragazzi, vogliono entrare anche loro. Hanno detto ai poliziotti che loro possono convincerci; in realtà vogliono solo essere qui insieme a noi.

Io, Matteo e Romeo: - E' una cazzaaata!

- Dicono che siamo sempre stati insieme, nei casini.

Dissi: - Ma no, ma quali casini? Quelle erano fesserie.

- Tra poco richiamano.

- E noi gli diciamo di no! Che se ne devono andare a casa.

- Hanno detto che entrano lo stesso.

- E allora noi..., noi...

- Noi che? Li facciamo saltare in aria?

Cadde il silenzio.

Poi Pietro disse: - Al limite gli posso dire di portare qualcosa da mangiare.

Scoppiammo a ridere; se quella era una risata.

Fu così che ci fummo dentro tutti. I poliziotti, nel frattempo, erano aumentati, sentivamo gli elicotteri sorvolare il deposito. Potevamo immaginare i giornalisti accampati fuori, i servizi che avrebbero fatto su di noi.

Decidemmo di arrenderci, ma non in modo incondizionato. Le condizioni sarebbero state che tutto il nostro materiale di ricerca fosse consegnato al CNR e che ci venisse fornita una scrittura firmata dal presidente del CNR con la quale si garantiva l'avvio e l'esecuzione di un programma di ricerca sulle nostre tecnologie.

Ottenuto ciò, ci saremmo arresi senza chiedere nessuna amnistia o sconto penale per noi. Volevamo che il messaggio arrivasse chiaro, che si capisse, anche sui media, quali fossero le nostre intenzioni: far scoprire al mondo la reale natura della nostra invenzione.

Scrivemmo un messaggio. Lisa telefonò al maresciallo e lo lesse; in modo chiaro e preciso, lentamente, scandendo bene ogni parola. Il maresciallo le rispose che si sarebbe fatto risentire. Eravamo sereni, le nostre richieste ci sembravano magari un po' ingenue, ma sicuramente in linea con i nostri obiettivi di sempre.

Il capannone era grande e in un angolo della parete opposta all'entrata, una cinquantina di metri dal punto dove eravamo raccolti, c'era un'apertura nel pavimento, larga qualche metro, profonda quasi due. Sembrava una vecchia installazione in disuso, e quindi svuotata dei macchinari, di una bilancia per camion. Andrea l'aveva ribattezzata a latrina, così, nell'attesa, mi recai in quell'angolo e mi misi a orinare dal bordo.

La risposta alle nostre richieste arrivò che ero a metà del flusso liquido: la porta fu sfondata, l'altoparlante gracchiò.

- Mani sulla testa e gambe aperte!

Mi girai di scatto e vidi i poliziotti irrompere con tute antincendio, estintori e armi spianate. Pietro sussultò e avvicinò la sigaretta alla miccia. Un poliziotto sparò mirando alla testa. Pietro cadde, ma la sigaretta gli si sfilò dalle dita e finì in un interstizio della cassa dei fuochi d'artificio.

Fissammo tutti attoniti la cassa; io, i ragazzi, i poliziotti.

Dapprima furono solo pochi, deboli scoppi a rompere l'atterrito silenzio del capannone; i poliziotti scapparono urlando. Poi scoppiò l'inferno.

Le casse iniziarono a esplodere una dietro l'altra. Spinto dall'onda d'urto, caddi nell'apertura del pavimento. La mano di Lisa, con il telefono ancora stretto tra le dita, arrivò fino a me e si posò al mio fianco in una pioggia di sangue. Poi arrivarono altri pezzi dei miei amici. Il calore e il fumo mi annebbiarono la coscienza. Sentii cadere pareti, il soffitto del capannone. In una pozza di sangue e organi vidi la memoria ingerita poco prima da Romeo. La presi e la ingoiai. Poi persi i sensi.