Il medico intanto l'aveva fasciato con una benda molto stretta, che si era subito inzuppata di sangue. Lì, dentro quell'ambulanza che correva per le strade deserte della cittadina, la sua vita gli parve una lunga preparazione per quell'appuntamento, per quell'incontro mancato con la rosa di confine, con quell'anonima guardia dai baffi neri e puntuti. Eccomi, disse sottovoce, ma lì accanto non c'era sua figlia, e questa gli sembrò un'ingiustizia, poi pensò che c'era la cameriera e le sorrise debolmente. Perché era stato tanto ansioso di vedere il confine? Era stata solo la fama crudele di quel Paese, oppure aveva voluto affrettare un destino? Perché gli avevano descritto quel confine così pericoloso e quel Paese così vasto e spietato? Adesso capiva che la spietatezza può nascondersi anche dietro una rosa e che tutto è collegato, la rete metallica al fucile della sentinella, al sorriso della cameriera, all'urlo della sirena.

Quell'urlo era certo udito dalle donne che preparavano la cena nelle case ombrose, era udito nei cortili, nelle concerie, nelle fornaci ansimanti. Lui sentiva tutta quella minuta e fantastica congerie di case, portoni, mulini, quel segreto fervore delle cose, il silenzioso lavorio dei sarti, degli orologiai, gli squilli radi dei telefoni, il fruscio delle biciclette, il sussurro delle vene, tutto si accordava in una subdola e laboriosa sinfonia, in una limatura, nella sfrangiatura, dell'universo dentro il quale vedeva finalmente il suo posto, un posto stabile e definitivo, per cui non era più obbligato a correre, a varcare confini, a cogliere rose, a fare stupide dichiarazioni alle cameriere. Anche sua figlia in quel momento occupava un posto giusto, lo riempiva con il suo corpo di donna in una vibratile e cangiante unanimità con tutto il resto, per fili lunghissimi essa era legata a lui che lentamente si dissanguava in quella corsa infinita, era legata a quell'urlo di sirena che si prolungava nel pomeriggio, trafiggendolo come si trafigge l'ascella del mondo, pensò, poi pensò alla morte di Gianna, qualche anno prima, che l'aveva lasciato stupefatto, al centro di un grande rimbombo. Quel rimbombo era la lingua con cui si esprimeva il mondo, una lingua frenetica e densa, segreta e appassionata, una lingua che è nelle cose e nella luce e nel mare e nelle ciglia, una lingua che non cessa di essere parlata.

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Gli sembrò che la cameriera dovesse perdonargli qualcosa, o lui a lei, ma non capiva che cosa, forse solo le intenzioni che non aveva avuto, perché lei forse avrebbe fatto tutto ciò che lui le avesse chiesto, ma non le aveva chiesto niente, le aveva soltanto accarezzato più volte la mano, abbandonandola e riprendendola, come se le stesse raccontando la sua vita. Ecco, doveva raccontarle la sua vita, doveva raccontarle specialmente di quel giorno che era andato dal padre di Gianna e che il vecchio l'aveva chiamato farabutto e poi era morto senza vedere la bambina. Farabutto, disse piano. Quel lontano episodio era una tortura che lui si era inflitto più spesso che aveva potuto, per cercare in fondo a quell'amarezza una ragione di conforto o semplicemente una povera vertigine. Non sentiva più l'urlo della sirena, la mano ferita gli sembrava pesantissima, ma nell'oscurità che si addensava non vedeva più il volto della cameriera. Cercò con gli occhi il dottore, ma non vide nemmeno lui, allora immaginò di farsi piccolo, di rinchiudersi in un involucro caldo e protetto, rosso scuro, soltanto quella mano non riusciva a farcela entrare, era troppo grande e pesante, sporgeva dal suo corpo come una chela enorme e rasposa che non riusciva più a comandare e che andava per conto suo nel bisbiglio delle cose, sfarinandosi le montagne e gli alberi, i confini e gli insetti, ondeggiando le rose nel vento.