Capitan Futuro, l’Uomo del Domani... Siamo a posto!  

Dieci minuti dopo da un hangar sotterraneo comparve una minuscola astronave  a forma di goccia. Si trattava della Comet, il vascello più veloce dei Futuriani, noto in tutto il sistema solare come il più rapido dello spazio. - Ibid.: Chiamata per Capitan Futuro (1940)
 Il mio nome è Rohr Furland, lavoratore spaziale, come già mio padre e mia madre prima di me.

Chiamatela tradizione di famiglia, se vi pare. Mia nonna fu tra coloro che presero parte alla costruzione del primo dinamosatellite che incrociò l’orbita terrestre, prima di emigrare sulla Luna. Fu là che concepì mio padre, dopo una notte passata  con uno sconosciuto che perì due giorni dopo a causa di una decompressione. Fu così che mio papà per diciott’anni crebbe nella Stazione Descartes, finché non decise di tagliare la corda imbarcandosi di nascosto su un cargo della Skycorp diretto verso la Terra. Una volta là si ritrovò a Memphis, sopravvivendo alla bell’e meglio finché, preda della nostalgia, non trovò impiego presso una compagnia russa che cercava seleniti come lui. Tornato a casa fece giusto in tempo a seguire gli ultimi anni della nonna, per poi partecipare alla Guerra Lunare per la Pax Astra e conoscere la mamma, impiegata come geologa presso la Stazione Tycho. 

Io nacqui in un lussuoso bilocale nel sottosuolo di Tycho proprio nel  primo anniversario dell’indipendenza della Pax mentre, come appresi in seguito, mio padre festeggiava scopandosi l’ostetrica che mi aveva fatto nascere e bevendo vino da due soldi. Ciononostante i miei rimasero insieme  fino alla mia abilitazione alla tuta, prima che la mamma tornasse sulla Terra, lasciando me e papà a goderci lo status di cittadini della Pax. Privilegio che consisteva in una carta di credito per ossigeno di classe A anche se si era disoccupati o squattrinati. In pratica  sempre, trattandosi di mio padre.

È per questo che crebbi come un piccolo bastardo rognoso ma privilegiato, allattato da bombole a ossigeno e coccolato dai pannolini lunari. Quando compii 16 anni, ricevetti la tessera sindacale e l’invito a cercarmi un lavoro. Quindici giorni prima di fare i 18 venni assunto come addetto al carico da uno shuttle orbitale che mi portò dalle parti di Galveston, dove grazie a un esoscheletro mossi i primi passi sul pianeta Terra. Ci rimasi una settimana soltanto; abbastanza per rompermi un braccio cadendo a Dallas,  perdere la verginità con una puttana di El Paso e  finire preda dell’agorafobia di fronte alle sterminate lande del Texas. Allora presi la prima nave in partenza per la Luna, mandando al diavolo la culla dell’umanità e festeggiando il mio diciottesimo compleanno con una torta senza candeline.

Dodici anni dopo avevo ormai esaurito tutta la gamma di lavori possibili per la mia qualifica: scaricatore di porto e sulle navi, addetto ai sistemi di supporto vitale di bordo, navigatore e in qualche occasione persino ufficiale. Avevo lavorato su tante di quelle navi da perderne il conto: cargo lunari, rimorchiatori, shuttle per passeggeri, fino ai trasportatori minerari di classe Apollo, ma mai una volta avevo superato i dodici mesi di ingaggio. Il motivo era che il sindacato, per garantire lavoro a tutti, imponeva la rotazione degli incarichi, e soltanto gli ufficiali potevano sforare  i 18 mesi. Un sistema veramente drammatico; non appena ti abituavi a una nave o a un comandante ti trasferivano e se ti andava bene dovevi ricominciare da capo. In caso contrario invece rimanevi disoccupato per mesi e mesi, vagabondando da un bar spaziale all’altro tra la  Stazione Tycho e Descartes City, in attesa che qualcuno perdesse il posto a tuo vantaggio.

In qualche modo alla fine tiravo a campare, ma ormai avevo trent’anni e pur essendo in buona salute, non avevo messo via un soldo. Quindici anni di lavoro duro in cui la cosa più vicina a una casa che avevo avuto era il mio armadietto di Tycho, in cui stipavo i pochi effetti personali. La mia dimora erano gli ostelli sindacali della Luna e varie stazioni orbitali, le cui stanze avevano spazio al massimo per un gatto o una puttana, oltre al sottoscritto. D’altronde anche queste ultime se la passavano meglio di me e mi era anche capitato di pagarle solo per stare nel loro letto, senza fare sesso.

La cosa peggiore è che mi annoiavo mortalmente. Una vita buttata tra la Luna e la Terra, fatta eccezione per un singolo viaggio su Marte con una nave stipata di pendolari. Poteva anche andarmi peggio, certo, ma non potevo certo considerarmi un privilegiato. Ne avevo sentiti tanti di vecchi depressi che sparavano enormi balle sulle loro avventure nello spazio o sulle prime colonie lunari, mentre si bevevano la pensione. Mi ero ripromesso di non finire come loro, ma dovevo andarmene in fretta dalla Luna o sapevo che avrei passato il resto della vita a trascinare serbatoi di ossigeno liquido.