Tutto questo lo ricordo bene e potrei andare avanti per mesi a descrivere le sensazioni che

Paolo Lanzotti
Paolo Lanzotti
provavo allora, chiuso nella mia camera, con le mani incollate alla macchina da scrivere (una Olivetti 22) e la mente protesa verso le galassie più inaccessibili. Ma parlarti del mondo della sf che ribolliva intorno a me, in quegli anni, è un'altra faccenda. Non saprei proprio cosa raccontarti, a parte ciò che sanno tutti. La verità è che io non sono mai stato un frequentatore dell'ambiente. Tutt'altro. Sono affetto da una timidezza congenita e insuperabile, che mi ha sempre limitato in modo drastico nelle relazioni pubbliche. Quindi preferivo starmene nascosto e sperare che i miei racconti parlassero per me. Oggi che mi avvio a diventare "anziano" le cose sono un po' cambiate. Ma (ci crederesti?) non più di tanto. E infatti, ogni volta che devo affrontare il pubblico per qualche incontro, qualche conferenza, qualche dibattito, devo fare violenza su me stesso per mostrarmi calmo e sicuro. Ahimè! L'animo umano può evolvere quanto gli pare, con l'età e con l'esperienza, ma non riesce mai a liberarsi della propria essenza più profonda.  

La tua carriera, come per altri scrittori italiani, non è molto prolifica, un po' perché hai abbandonato il campo quando gli spazi per pubblicare erano davvero pochi. Tra i vari racconti che hai pubblicato - soprattutto su Nova SF e Futuro Europa, le riviste dell'allora Perseo e oggi Elara Libri - quale ti rappresenta di più e per quale motivo?

Non ho pubblicato molto, hai ragione. Soprattutto ho scritto molto meno di quanto avrei voluto nell'ambito della sf. Le ragioni sono state diverse. La mancanza di spazi editoriali. Il mio bisogno istintivo di esplorare e mettermi alla prova con generi diversi. Il desiderio di crearmi uno spazio professionale stabile (la sf in Italia è sempre stata un ghetto ad accesso casuale). L'eterno e del tutto personale conflitto tra le mie convinzioni a proposito della fantascienza e lo snobbismo di chi mi circondava e mi spingeva a fare altro. Magari anche un po' di sfortuna (raramente mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto. Ma questa, forse, più che una sfortuna è stata una mia colpa). Ovviamente, tutti i racconti e i romanzi che ho scritto sono dei figli, per me. Quindi non posso e non voglio fare graduatorie. Tuttavia, se parliamo di "rappresentanza" il racconto che mi descrive più scopertamente, forse, è "Arabesco" (che voi stessi avete voluto riprendere, pubblicandolo nel sito di Delos qualche anno fa). In quel racconto si trovano tutti gli aspetti essenziali del mio carattere e della mia "filosofia" esistenziale. La convinzione che la vita sia una battaglia da combattere fino in fondo. L'odio per le ingiustizie e le prevaricazioni, e il desiderio di contrastarle. La volontà "prometeica" di non arrendersi al destino, anche se la guerra è persa in partenza. La sensazione che gli uomini, alla fine, siano comunque soli e che l'esistenza non abbia altro scopo che se stessa. Quando ho scritto "Arabesco" non intendevo certo farne una confessione, un testamento cartaceo. Ma forse è andata a finire proprio così.

Che effetto ti ha fatto, dal punto di vista emotivo, sapere che avevi vinto la prima edizione del Premio Odissea, seppur a pari merito con Clelia Farris?

Che sensazione ho provato quando ho scoperto di aver vinto il Premio Odissea? Per fartelo capire devo confessarti una cosa che conoscono in pochi. Oltre che di una timidezza congenita, io soffro di un invincibile senso di inadeguatezza davanti alle mie stesse ambizioni. In altre parole, dentro di me convivono faticosamente grandi desideri e grandi timori di non essere nato con le capacità necessarie per realizzarli. Quando comincio a scrivere un nuovo romanzo parto con la sensazione che non riuscirò nemmeno a finirlo. Quando l'ho finito devo combattere con la sensazione che farei meglio a buttare via tutto e a ricominciare da capo. Quando finalmente m'impongo di accettare ciò che ho scritto fino a quel momento comincia il calvario, pressoché infinito, delle revisioni, dei pentimenti, delle correzioni. Quando il romanzo arriva a darmi la nausea, non ne posso più di lavorarci sopra e devo concluderlo, se non voglio impazzire, mi trovo combattuto tra il desiderio di dargli almeno la possibilità d'essere esaminato e la tentazione di cacciarlo in un caminetto, disperdere le ceneri in mare e non pensarci più. A questo punto c'è bisogno di chiarire che, quando ho scoperto di aver vinto il Premio Odissea, non ci volevo credere? Sai per quanto tempo ero rimasto indeciso sull'opportunità di partecipare, o meno, al concorso? Sai quante volte mi ero detto"non ne vale le pena. Sarò scartato alla prima lettura. Saranno arrivate montagne di romanzi più belli e interessanti del mio"? Ora sono contento di averlo fatto. Ma ti assicuro che c'è mancato un pelo perché Kregg rimanesse nel fatidico cassetto. Per mia fortuna, come ti ho detto prima, a grandi difetti caratteriali posso opporre almeno una robusta testardaggine, un grande orgoglio e la volontà "prometeica" di combattere anche contro gli Dei, se necessario. Spesso è solo questo che mi spinge a mandare i miei figli nel mondo. E quando succede che qualcuno di loro abbia successo, più che un padre orgoglioso mi sento come Alice nel paese delle meraviglie.