La Storia è scritta dai vincitori; a questa draconiana regola non sfuggono le vicende che hanno accompagnato la più memorabile impresa concepita dall’Uomo: raggiungere un altro corpo celeste. Sul Programma Apollo, organizzato dalla NASA affinché un astronauta americano imprimesse la propria orma sulla Luna, esiste una sterminata letteratura che spazia dalla cronaca popolare alla più raffinata divulgazione scientifica. A voler ben guardare, però, tutti i documenti ricalcano nella sostanza la sceneggiatura delle classiche pellicole di Hollywood: i nostri eroi restano inizialmente vittime di un’imboscata (il lancio in orbita del primo satellite artificiale per opera dell’Unione Sovietica), si riprendono e facendo appello a tutte le loro risorse si preparano alla controffensiva, subiscono ancora delle umiliazioni (è russo anche il primo uomo nello spazio), ma quando tutto sembra perduto ecco che “arrivano i nostri”, nelle vesti della NASA, che sbaraglia gli avversari e conquista il meritato trionfo con immancabile “happy end” (balzi di gioia sulla Luna). Altre immagini restano tuttavia nella memoria collettiva: lo stupore attonito dell’Occidente di fronte a una sfera di metallo che per la prima volta inviava un debole segnale dallo spazio, il sorriso disarmante di un giovane che poco aveva in comune con gli eroi dei fumetti di fantascienza, ma che aveva davvero varcato i confini del cielo; immagini in bianco e nero cariche di emozioni, seguite da voli di navicelle in formazione attorno alla Terra e da un cosmonauta che galleggiava nel vuoto al di fuori della sua capsula. Questi ricordi poco a poco sbiadiscono, assumono il color ocra della nostalgia mentre l’intera scena è occupata dal rutilante technicolor a Stelle e Strisce.

Che cosa è realmente successo, dove sono finiti i sogni dell’altra metà del mondo?

All’inizio vi è sempre un folle, genio o eroe, comunque pazzo tanto da sconvolgere gli schemi acquisiti e tentare imprese non degne di seria considerazione.  Sergej Korolev, ingegnere ucraino, dopo aver attraversato l’inferno delle carceri staliniane a seguito d’infondate accuse di slealtà, aveva potuto unirsi agli scienziati incaricati di studiare le V2 tedesche per poi realizzare un missile balistico intercontinentale, unica speranza per i sovietici di contrastare la strapotente aviazione americana, dominatrice dei cieli.

Mentre il programma avanzava a ritmi serrati, Korolev e i suoi più stretti collaboratori trovarono modo di sviluppare un progetto autonomo avente come obiettivo la messa in orbita di un piccolo satellite scientifico. La potenza dei vettori disponibili consentiva la realizzazione del sogno ipotizzato da Newton. I vertici politici e militari, preda delle medesime ossessioni che toglievano il sonno ai paesi occidentali, il terrore di un attacco nucleare a sorpresa, percepivano però l’iniziativa con fastidio e ostilità in quanto distoglieva tempo e risorse dagli obiettivi prioritari. Grazie alla propria autorevolezza e agli appoggi nella nomenklatura che era andato conquistandosi, Korolev riuscì a tenere vivo il progetto e, ottenuta la disponibilità di un vettore, il 4 ottobre 1957 coronò gli sforzi inserendo in orbita lo Sputnik I.

Le autorità sovietiche non furono particolarmente colpite dall’evento: la Pravda riportò la notizia con uno scarno comunicato di poche righe in cui si annunciava l’inserimento orbitale di un satellite nel quadro del programma missilistico. Solo il giorno successivo, di fronte al clamore dei mezzi di informazione occidentali e alla fibrillazione degli Stati Uniti, il governo sovietico si rese conto di avere tra le mani uno straordinario strumento di propaganda, mai prima immaginato. Per Korolev e il suo gruppo si spalancavano le porte delle più inaccessibili stanze del Cremlino: era nata l’Era Spaziale.