Spesso, la recensione di un libro di narrativa inizia da una citazione, una frase o un evento rappresentativo che ricapitola in piccolo temi e atteggiamenti di tutto il volume. O comunque, da cui — con un poco di arroganza — il recensore parte per scoprire un filo unificante.

Questo è impossibile nel caso di L’essenza del futuro, l’antologia riepilogativa della fantascienza di Vittorio Catani, da poco pubblicata dalla Perseo Libri nella collana Narratori Europei di Science Fiction (n.34), con prefazioni di Ugo Malaguti e Lino Aldani e una bibliografia di Ernesto Vegetti. Infatti, l’unica caratteristica che accomuna le oltre 600 pagine di oltre 60 racconti, novelle e articoli di questo libro è una straordinaria, irrefrenabile, incessante varietà di sfondi, generi, registri linguistici. C’è tutta la fantascienza in questo libro, in ogni suo sottogenere, non perché troviamo dei “periodi”, ma perché tutte le varianti della SF vengono esplorate e riesplorate ripetutamente, con un rifiuto della specializzazione che è la vera ricchezza di Vittorio Catani.

Assolutamente differenti fra loro sono state nel corso degli anni le mie, personalissime, “scoperte” della scrittura di Catani. Nel suo primo volume, la raccolta L’eternità e i mostri (Galassia), del 1972 e da me letta ovviamente qualche anno dopo, si succedevano quattro racconti molto diversi. Per esempio, I mostri è una tragica storia di dislocazione psichica, brillante per il modo in cui tiene in secondo piano l’elemento tecnologico, pur fondamentale per la storia: chissà, forse anche qui nasce la via italiana alla ricerca del “postumano”. Invece, Nella sfera è uno dei pochi veri dopobomba della fantascienza italiana (sul modello del semidimenticato Edgar Pangborn più che di Bradbury o Dick), in cui il mondo e il protagonista raggiungono, a gran prezzo, una maturità che permetterà di affrontare il futuro. Entrambi racconti che hanno dentro le potenzialità del romanzo, rispettivamente come preludio e per lo spessore dello sfondo.

Ma a spiccare è il primo, un racconto lungo di esplorazione spaziale, Breve eternità felice di Vikkor Thalimon, che dall’allusione hemingwayana del titolo riprende il perseguimento di una rivelazione, di una salvezza. I codici – nonostante tutto rassicuranti – di Hemingway sono in realtà molto lontani, e la durezza della storia ha più a che fare con la letteratura “coloniale” di Stevenson e Conrad, muovendosi allo stesso tempo su coordinate introspettive ed “esistenziali”. Insomma, la più bella descrizione di un mondo alieno, barocca e dettagliata, della SF italiana è lo scenario di un’avventura che rivela l’autodistruttività della volontà di onnipotenza implicita in tante tradizionali storie di esplorazione: in quei termini, nessun contatto, dialogo o integrazione è possibile. Una storia estrema, che solo la SF può raccontare.

La mia seconda scoperta avvenne con una storia altrettanto estrema, letta in un’antologia cyberpunk curata da Roberto Sturm (Sangue sintetico, Pequod 1999), ma in realtà (seppi molto tempo dopo) pubblicata per la prima volta nel 1986, quando il sottogenere era appena nato. Senza speranza per il mondo come per il protagonista, L’angelo senza sogni presenta uno scenario di spossessamento “biopolitico” – umano, sociale, tecnologico, ma soprattutto fisico e corporeo – che non potrebbe essere più assoluto, totalmente privo della fiducia e della sicurezza vantata dai vari Bruce Sterling e Neal Stephenson. La distopia non è solo (come in molte, troppe, nostrane imitazioni della social science fiction) questione di ingegneria istituzionale, ma come in William Gibson e Pat Cadigan, noi tutti la viviamo dentro la concretezza del corpo.

Ecco, Vittorio Catani, che esordisce nel 1962 sulla Galaxy italiana con un rutilante racconto (Le nevi di Oghiz) ispirato dalla migliore avventura spaziale di Jack Vance e Sprague De Camp, alla metà degli anni Ottanta scrive una storia perfettamente in sintonia con tutto quanto rappresentava il “nuovo” nel resto della SF mondiale, in effetti anticipandone molto. Non basta?