Le nostre giornate hanno preso da sé un ritmo di pacata naturalezza: sveglia alle nove e trenta (un po' prestino, lo so, ma alle dieci e mezzo quei porci dell'hotel chiudevano la pappatoria del breakfast), colazione alle dieci. Un salto in camera per espletare indispensabili funzioni fisiologiche (solo io, produttivo all'estero quanto in patria), e alle dieci e trenta via per la visita alla città. Il primo giorno dopo l'arrivo è stato doverosamente dedicato ai monumenti più essenziali del centro di Barcellona: il supermarket Corte Ingles e il supermarket Fnac. Visti quelli, praticamente di Barcellona hai visto tutto. Anche se nei giorni successivi ci siamo concentrati sulle cosucce minori come la cattedrale, la Sagrada Família, il parco Güell, eccetera. Insomma, qualcosa per passare il tempo bisognava pur farla, no?

Trattavasi di scarpinate di un paio d'ore al mattino, e anche di più nel pomeriggio. Per uno come me, uno che per andare in ufficio passa dalla camera da letto allo studio percorrendo quei cinque o sei metri, non è stato sforzo da poco. L'Inquisitore all'inizio mi prendeva in giro per una certa fiacca e per la tendenza a chiedere soste al bar, ma dopo qualche giorno sono diventato più arzillo di lui e ho rifiutato sdegnosamente la sua offerta di troppo comodi viaggi in metropolitana. Giammai! Non mi sono fermato nemmeno quando, il dì che ha piovuto, ho dovuto indossare un paio di scarpe nuove antiacqua che mi hanno traforato i calcagni: mi sono fatto applicare da Lucia (entrando insieme nella toilette di un bar, tra la viva curiosità degli indigeni, mentre Valerio si nascondeva sotto il tavolo per fare finta di non esserci e soprattutto di non essere con noi) i celebri cerotti salvacalcagno Compeed, e oplà, avanti tutta. L'Inquisitore non riusciva più a tenermi dietro. L'ho sfiancato. Checché possa avere raccontato lui, che è pettegolo e pure bugiardo.

Verso le dodici e mezzo ci facevamo una birra a mo' di aperitivo (Lucia spremute e affini), e all'una e un quarto o giù di lì andavamo a mangiare. Per gli spagnoli, che entrano al ristorante verso le tre, era un orario ridicolo, però in compenso siamo sempre riusciti a sederci con la massima tranquillità, senza dover affrontare le epiche code che si formavano regolarmente davanti ai ristoranti migliori. Specialmente davanti al Madrid-Barcelona, un eccellente locale in centro che ha come insuperabile specialità la paperina de fritos! Di fronte al menù, Valerio, che conosce la Spagna come le sue tasche, mi ha spiegato che si trattava di una piccola papera ripiena di fritto misto di calamari, gamberetti, pescetti. Ora, a me la papera non piace, soprattutto per motivi umanitari, però il fritto misto mi gusta assai; così ho ordinato. La paperina l'avrei sbolognata a Lucia. In realtà, Valerio è un ignorantaccio: la paperina era un tubo di carta non commestibile pieno del suddetto fritto! Gran goduria. E infatti, colà le cartolerie si chiamano papererie, se mi spiego. In compenso non sono mai riuscito a scoprire come si dica "paperina" in spagnolo. Magari "tubo de carta"?