Alcune automobili sono ferme al semaforo in attesa che scatti il verde. I pedoni attraversano, passa qualche secondo, il disco diventa verde ma un'auto non riparte, bloccando il traffico. Inizialmente gli automobilisti pensano a un problema meccanico e scendono dalle auto per aiutare l'autista in difficoltà: viene fuori invece che l'uomo è diventato improvvisamente cieco. 

Sia apre così Cecità, il romanzo maggiore di uno dei più grandi scrittori del ventesimo secolo, José Saramago, insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1998. Un romanzo di fantascienza, anche se i due editori italiani che l'hanno pubblicato (prima Einaudi, poi Feltrinelli) si sono guardati bene dall'usare questa etichetta.

Ed è vero forse che, di fronte a certi capolavori della letteratura, le etichette di genere sono superflue: eppure Cecità è stato tra i libri più di frequente citati in questi mesi, insieme ad altri titoli distopici e post-apocalittici, segno che anche nell'immaginario collettivo questo tipo di storie si colloca a pieno titolo nella fantascienza.

Torniamo dunque alla scena iniziale: siamo in una città senza nome, come spesso nella narrativa di Saramago, e dopo quel primo contatto anche l'uomo che aiuta il «primo cieco» è colpito da improvvisa cecità, e dopo di lui altre persone con cui i due entrano in contatto, compreso l'oculista che visita il primo cieco («il medico») e i pazienti dello studio; finché le autorità non sono costrette a riconoscere l'esistenza di un'epidemia di «cecità bianca» che si diffonde più rapidamente di qualsiasi decisione venga presa per frenarla. Verso la metà del romanzo, appare chiaro che tutti gli abitanti del Paese sono ormai ciechi, con la sola eccezione della «moglie del medico» che avrà un ruolo importante nella storia.

Il racconto di Saramago non si limita comunque al pretesto del titolo: l'epidemia di cecità è innanzitutto studiata nella sua dimensione scientifica; è il medico a farsi portavoce delle riflessioni strettamente neurologiche:

Andò a prendere dalla scaffalatura i libri specialistici, alcuni vecchi, dei tempi dell’università, altri recenti, qualcuno di recentissima pubblicazione, che non aveva ancora avuto il tempo di studiare. Cercò negli indici, uno dopo l’altro, metodicamente, si mise a leggere tutto quello che trovava sull’agnosia e l’amaurosi, con la scomoda impressione di sapersi un intruso in un campo che non era il suo, il misterioso territorio della neurochirurgia, sul quale non possedeva più che alcuni scarsi lumi. Nel cuore della notte, allontanò i libri che stava consultando, si stropicciò gli occhi stanchi e si abbandonò sulla sedia. In quel momento l’alternativa gli si presentava con la massima chiarezza. Se fosse un caso di agnosia, adesso il paziente vedrebbe quello che aveva sempre visto, cioè non gli si sarebbe verificata alcuna diminuzione dell’acutezza visiva, è che il cervello, semplicemente, sarebbe diventato incapace di riconoscere una sedia là dove ci fosse una sedia, in altre parole avrebbe continuato a reagire correttamente agli stimoli luminosi trasmessi dal nervo ottico, ma, per usare termini comuni, alla portata di gente poco informata, avrebbe perso la capacità di sapere che sapeva, e, tanto più, di esprimerlo. Quanto all’amaurosi, nessun dubbio. Perché effettivamente si trattasse di amaurosi, il paziente avrebbe dovuto vedere tutto nero, fatto salvo, è chiaro, l’uso del verbo, vedere, trattandosi di tenebre assolute. Il cieco aveva affermato categoricamente di vedere, sempre facendo salvo il verbo, un colore bianco uniforme, denso, come se si trovasse immerso a occhi aperti in un mare di latte. Un’amaurosi bianca, oltre a essere etimologicamente una contraddizione, sarebbe anche una condizione impossibile dal punto di vista neurologico, dato che il cervello non solo non avrebbe potuto percepire le immagini, le forme e i colori della realtà, ma non avrebbe neanche potuto, per dir la così, coprire di bianco, di un bianco continuo, come una pittura bianca senza tonalità, i colori, le forme e le immagini che quella stessa realtà avrebbe presentato a una visione normale, per quanto sia sempre problematico parlare, con effettiva proprietà, di una visione normale. 

Difficile non pensare alla «scienza romantica» di Oliver Sacks, leggendo queste pagine. Non possiamo neanche ignorare, del resto, che il titolo originale del romanzo di Saramago, a torto mutilato in traduzione, è Ensaio sobre a Cegueira, un saggio dunque, un'indagine su una condizione fisica ma anche umana e sociale.

Perché di fronte all'inspiegabilità fisiologica dell'evento, la riflessione dell'autore si sposta nel campo della fantascienza sociale, potremmo dire antropologica: i ciechi vengono prima rinchiusi in un ex manicomio sorvegliato dall'esercito, in cui si riproduce l'esperienza di un lager; e poi, crollato anche l'intero sistema politico, i superstiti vagano per la città in rovina, in cerca di cibo, delle loro vecchie abitazioni, dei parenti.

A dire la verità il romanzo, osannato dalla critica e amato da un gran numero di lettori, riceve a volte pareri tiepidi o negativi proprio dai lettori di fantascienza; questo perché probabilmente la nuda trama potrebbe ricordare storie ben note (il riferimento più comune è Il giorno dei trifidi di John Wyndham, in cui in seguito all'invasione di una specie vegetale aliena, l'umanità è colpita da cecità e si formano nuove comunità tra i superstiti).

È vero che la storia raccontata da Saramago ha ben poco di nuovo per chi ha letto molta fantascienza; ma è anche vero che pochi altri autori che ci hanno raccontato un'epidemia lo hanno fatto con una tale maestria tecnica.

La vera grandezza di Saramago sta, come è noto, nel suo stile peculiare: fin dal primo romanzo, Una terra chiamata Alentejo, il Nobel portoghese ha creato una lingua che deve moltissimo all'oralità, con un narratore onnosciente che sembra parlare ai suoi ascoltatori, un flusso verbale i cui pressoché unici segni di punteggiatura sono la virgola e il punto, in cui le voci dei personaggi si mescolano a quelle del narratore grazie a un uso sapiente del discorso indiretto libero. Se questo stile ha una forza innegabile in ogni suo romanzo, in Cecità raggiunge la piena fusione tra forma e contenuto: i personaggi non hanno nome, dunque dobbiamo riconoscerli dalle voci esattamente come fanno i ciechi. Anche noi siamo ciechi.

Siamo talmente lontani dal mondo che fra poco cominceremo a non saper più chi siamo, neanche abbiamo pensato a dirci come ci chiamiamo, e a che scopo, a cosa ci sarebbero serviti i nomi, nessun cane ne riconosce un altro, o si fa riconoscere, dal nome che gli hanno imposto, è dall’odore che identifica o si fa identificare, noi, qui, siamo come un’altra razza di cani, ci conosciamo dal modo di abbaiare, di parlare, il resto, lineamenti, colore degli occhi, della pelle, dei capelli, non conta, è come se non esistesse. 

Se contenuto e forma coincidono, è attraverso lo stile stesso che l'autore può scrutare nelle profondità dell'essere umano, indagarne le reazioni di fronte a eventi eccezionali, in cui la pacifica moglie di un medico può arrivare a uccidere per la sopravvivenza sua e del suo gruppo e una giovane e bella prostituta può innamorarsi di un vecchio bendato.

L'autore spesso fa un passo indietro di fronte alle azioni dei suoi protagonisti:

Scusa, non so cosa mi abbia preso, infatti avevamo ragione, come avremmo potuto noi, che solo vediamo, sapere ciò che non sa neppure lui. 

La voce narrante (lo stesso Saramago?) non è un dio onnisciente, ma piuttosto un osservatore, uno scienziato che studia una malattia, o un antropologo che osserva una popolazione ignota; fa delle ipotesi, ma la sua voce non ha più autorità di altre, di chi sta vivendo il dramma in scena – anzi, forse ne ha meno. Verso la fine, l'autore fa persino una comparsa: quando il medico e sua moglie tornano nella loro vecchia casa e la trovano occupata da uno scrittore. Anche lui è cieco e anche lui non ha un nome, naturalmente:

Come si chiama, I ciechi non hanno bisogno del nome, io sono questa mia voce, il resto non è importante, Ma ha scritto dei libri, e su quei libri c’è il suo nome, disse la moglie del medico, Adesso non può leggerli nessuno, dunque è come se non esistessero. 

Anche lui è in qualche modo depotenziato dalla perdita della vista, non può raccontare quello che non sa, per questo per scrivere il suo romanzo sulla cecità deve ascoltare le voci dei suoi ciechi, e poi affidarsi all'immaginazione, fare delle ipotesi, fermarsi di fronte all'indicibile.

Se il morbo è inspiegabile, lo è ancora di più la violenza che porta alla luce. Saramago sceglie di affrontarla con il suo sguardo ironico ma sempre animato da un umanesimo laico che emerge in tutti i suoi scritti; e qui appare nei momenti più cupi come uno squarcio di pietà nella disperazione (il cane che asciuga le lacrime alla moglie del medico) o in squarci di bellezza (le tre donne nude che si lavano in balcone sotto la pioggia scrosciante) e infine nell'amore e nei nuovi legami famigliari che si stabiliscono tra i ciechi.

Forse è eccessivo parlare di ottimismo, ma quantomeno Saramago ci lascia intravedere una debole speranza nell'umanità. Di questi tempi, non è poco.