Valeria abbassò lo sguardo sulle proprie mani, pregandole di obbedire a quanto stava per ordinar loro di commettere, senza indecisioni e senza tremori. Dalla tasca tirò fuori la lametta da barba che aveva sottratto a zio Pino. Tenendola tra l'indice e il medio appoggiò la mano sulla pagina, a palmo in giù, come in un gesto casuale.

Era carta di un tempo, spessa e resistente. Fu come incidere pelle umana. Lentamente, molto lentamente, sperando che il fruscio della carta che cedeva sotto la lama si confondesse con il lavorio dei tarli.

Quando finì, aveva la fronte madida e la mano le tremava talmente che l'indice scivolò sul bordo affilato della lametta. Il dolore acuto non rallentò i suoi gesti. Pochi secondi, e la pagina era già sparita sotto la giacca, contro il suo cuore.

Una goccia scarlatta cadde sul ripiano lucido del tavolo.

* * *

Il vicolo soffocava nella traspirazione acre dei muri e l'alito freddo e umido che spirava dalle grate degli scantinati. Un'atmosfera da catacomba, ancor più accentuata nell'androne semibuio del palazzo. Scalini consumati, marmo opaco di sporcizia sedimentata, e ovviamente niente ascensore.

Quando Valeria arrivò alla mansarda aveva il cuore in gola, ma non per la fatica. Era l'emozione a toglierle le forze e far sì che il suo bussare risultasse appena percettibile. Ma lassù non arrivavano i rumori della città e quel suono risultò comunque udibile.

- Avanti, è aperto. - Una voce ruvida come il legno della porta, deturpata dalle screpolature di una pessima vernice marrone.

Valeria entrò.

La soffitta era piccola ma riceveva luce, oltre che dall'abbaino, anche da una finestrella posta dirimpetto alla porta. I vetri, smerigliati da una patina di sudiciume, filtravano gli stenti raggi del sole, smorzando i colori dell'ambiente: una prevalenza di marroni opachi, gialli scoloriti e bianchi ingialliti. Polvere, disordine, puzzo di fumo stagnante e di calzini sporchi.

L'uomo stava in una poltrona dalla tappezzeria scolorita e, come la camicia e i pantaloni che indossava, appariva consunto e sudicio. Fissò Valeria sbattendo le palpebre in un tic nervoso. - Chi è lei? Le devo dei soldi, per caso?

La donna richiuse la porta e fece qualche passo avanti, ingoiando l'emozione. - Lei è Delorenzo?

Occhi lustrati da una qualche specie di febbre la guardarono con sospetto. - Se è per lo sfratto...

Valeria scosse la testa. - Devo parlarle di lavoro.

- Lavoro? - L'uomo ripeté quella parola come se si trattasse di un vocabolo straniero del quale ignorava il significato.

- Lei era il miglior artista olografico, fino a qualche anno fa.

Lui si grattò una guancia; le sue unghie, sulla barba di quattro giorni, produssero uno strano suono, come un raspìo di zampette di topo. - Ha detto bene. Qualche anno fa.

- Mi auguro che non abbia perso il suo talento.

Lui fece una breve risata singhiozzante. - Talento? Ci si paga l'affitto, col talento? E comunque io non lavoro più, dovrebbe saperlo.

- Io so che era geniale, ma incapace di comportarsi saggiamente, almeno secondo la morale corrente. Invece di limitarsi a produrre inoffensiva arte di consumo, lei usava il suo talento per denunciare ciò che la indignava; così l'hanno fatta fuori. E adesso è un tossico e campa ricettando merce rubata. Ma a me non importa niente di tutto questo. Ho bisogno di quel talento che deve pur esserci, da qualche parte, in lei.

La tensione di quell'ultima frase scagliò un piccolo dardo d'interesse attraverso l'indifferenza sarcastica dell'uomo.

- Ha bisogno... di me?

Valeria frugò nella borsetta, vergognandosi per quanto il tremito delle mani la faceva apparire goffa e indecisa. - Non è molto, ma è tutto quel che ho. - Risparmi di anni, accumulati forse con la precognizione di uno scopo che le si rivelava soltanto adesso. - E poi c'è anche questo.