Milena Debenedetti

Il racconto A tempo indeterminato, che tratta di individui completamente isolati sul posto di lavoro, per costringerli a licenziarsi, è stato segnalato al premio Alien nel 1999. Già quando lo spedii al premio mi dissi: mi sbrigo a inviarlo, perché questa sta cominciando a essere realtà, non fantascienza! E infatti, sul giornale di ieri leggo una vicenda relativa all'Ilva di Taranto, proprietà del famigerato industriale Riva, che sembra ricalcare in pieno il mio racconto. In fabbrica ci sono troppi impiegati: allora propongono loro una delle tante nefandezze moderne, la novazione: stesso stipendio, ma mansioni operaie. In 76 rifiutano. Allora "furono trasferiti nella palazzina Laf. A non fare niente per otto ore al giorno, in uffici che non erano uffici ma stanze senza mobili, al massimo un tavolo e una seggiola, sgangheratissimi. E con i vetri rotti, i bagni sporchi, un telefono solo per ricevere. Quando abbiamo fatto l'ispezione, i dirigenti dello stabilimento avevano ordinato di dare una mano di bianco, cercato di mascherare la situazione...."

Ora ci sono state polemiche, c'è un processo. La dirigenza nega ineffabilmente. La palazzina per loro era "un luogo di possibile ed eventuale collocazione" per chi fisicamente era rimasto senza ufficio eppure "insisteva per accedere allo stabilimento" dove peraltro " aveva accesso a tutti i servizi e in particolare alla mensa."

Le vittime di questa situazione si sono ammalate: depressione, attacchi di panico, disturbi psicosomatici. Chi non è ancora arrivato alla pensione è ora in cassa integrazione. Dice il pubblico ministero: "E' accettabile attentare alla personalità più intima di un essere umano, fiaccarne la volontà e la resistenza per intimidire ed educare gli altri? Perchè questo era lo scopo, dare l'esempio. Gli impiegati venivano pagati lo stesso, ma pagare lo stipendio in quelle condizioni è ancora più umiliante, significa dire alle vittime vedete, io sono così superiore rispetto a voi che posso permettermi il lusso di infliggervi ogni sorta di sofferenza morale approfittando delle vostre necessità materiali. "

Speriamo che il clamore intorno a questa storia continui, che ci sia una condanna. Il mobbing è anche questo, ed è purtroppo molto diffuso, in forme più o meno sottili, più o meno eclatanti.

Non se ne parla ancora abbastanza.

Purtroppo lo conosco troppo bene, l'ho subito personalmente, fino a lasciare volontariamente il mio posto di lavoro, l'hanno subito familiari e amici, tanti brillanti giovani laureati tecnici lentamente spezzati, privati di professionalità, lasciati "nel mezzo del cammin di nostra vita" senza essere né carne né pesce, costretti a continuare ad accettare l'inaccettabile, finché dura, non avendo alternative, perché non riescono a trovare altri posti di lavoro e ormai non li troveranno. E non sto parlando di gente che non vuole allontanarsi, ma anche di gente che ha cercato in tutta Italia, all'estero, ma ormai non è più vendibile.

Vabbè. Scusate l'amarezza. Il fatto è che per me scrivere racconti come questo è l'unico modo per denunciare gli innumerevoli soprusi del mondo del lavoro attuale. Probabilmente non sarebbe stato ammesso al premio Omelas, dedicato ai diritti umani, eppure credo che oggi esistano mille nuove forme di persecuzione che può subire un essere umano, non solo per le sue opinioni politiche, religiose, ecc., ma anche e semplicemente perché vuole occupare un posto di lavoro. E la distruzione psicologica che subisce un mobbizzato è difficile da spiegare, da estrinsecare in termini pratici, ma non per questo meno reale e dannosa.