- Non si accendono fuochi durante le perlustrazioni, - si azzardò a dire Magni, ma nessuno gli prestò attenzione. Ricordavamo anche troppo bene il freddo che avevamo patito durante un allarme poco dopo il nostro arrivo al "Butera", quando, alle tre del mattino, ci avevano portato con i camion su un colle che dominava la caserma. Eravamo rimasti lì fino all'alba ad aspettare l'ordine di rientro; nel frattempo si gelava, perché i teloni dei camion dovevano restare alzati, e Sgueglia ci teneva d'occhio dalla camionetta. Non si poteva accendere neanche una sigaretta, perché "ogni fuoco poteva segnalare la nostra posizione". Quando tornammo alla "Pasquali-Campomizzi", si scoprì che l'ordine di rientro aveva tardato tanto ad arrivare perché in sala radio s'erano sbagliati e s'erano convinti che tutte le compagnie fossero già rientrate.

Insomma, guidati da Lucchini raccogliemmo un bel po' di rami secchi; dato che eravamo undici, e tutti vogliosi di fare qualcosa e di scaldarci, mettemmo su un bel mucchio di legna. Saltarono anche fuori due accendini e una rivista pornografica che venne sacrificata di buon grado per accendere il fuoco. La neve continuava a cadere, ma in breve si alzarono le fiamme e tutti ci sentimmo meglio. Lucchini ci rincuorò dicendo che in fondo, in montagna, se uno scendeva non sbagliava mai, prima o poi trovava una strada, e seguendo quella si tornava al paese. Insomma, la situazione era meno brutta di quello che sembrava. Se Matullo non tornava, saremmo comunque riusciti a tornare alla civiltà. Anzi, senza il nostro caposquadra facevamo pure prima. Tutti risero, e l'aria si scaldò per davvero. Comparvero delle gallette, qualche pezzo di cioccolato extra-fondente dell'Esercito, bustine di cordiale; ci disponemmo in cerchio attorno al fuoco e aspettammo, chiacchierando dei soliti argomenti da caserma: la naja, il mangiare, le donne, le licenze. Prendemmo in giro Matullo, Sgueglia, il capitano Bokassa, che tutti odiavamo di cuore. Ci mettemmo a fumare, qualcuno tirò fuori addirittura una fiaschetta di whisky.

La nostra amena conversazione venne interrotta un'oretta più tardi da un rumore di rami spezzati. Ci voltammo: era Giuseppe Crisolora. Solo, senza il basco e senza fucile, con una macchia di sangue sulla fronte e un grosso strappo sui pantaloni della mimetica, ci fissava con occhi sbarrati e tremava come una foglia; era più bianco della neve che già copriva in più punti il bronzeo manto di foglie secche.

* * *

Gli andai incontro. In un certo senso me lo aspettavo, e questo mi dava il diritto, così pensai in quel momento, di prendere in mano la situazione. Corsi da lui prima degli altri, lo scrollai.

- Che è successo? - chiesi.

- Hanno ammazzato Ribicchini, - rispose lui, quasi balbettando. Magni ci raggiunse e gli porse la fiaschetta con quel che restava del whisky; Giuseppe lo tracannò senza prender fiato.

- Chi l'ha ammazzato? - chiesi.

- Soldati.

- Soldati? - chiese Magni, attonito. - Ma quali soldati?

- Non lo so. Cioè lo so. Sono italiani come noi, ma... non come noi. Non sono dell'Esercito, cioè non di questo esercito...