Alle 6.30 la sveglia. Tutti s'accalcarono a lavarsi nei bagni spogli e freddi, davanti agli specchi perennemente scheggiati. Poche parole tra noi della 3^ squadra, sapevamo quello che ci aspettava. Andammo a far colazione di corsa, perché la mensa non era proprio vicina alle compagnie del "Butera", e chi arrivava in ritardo all'adunata si beccava tre giorni di consegna. Alle 7.30 eravamo tutti lì, noi del 9° "M.O. Butera", gli artiglieri del "Taro", la compagnia del Genio Guastatori (che forse erano gli unici più scoppiati di noi e degli artiglieri), gli imboscati del battaglione logistico "Acqui", i raccomandati del Comando Brigata, tutti schierati sull'attenti a fissare quei tre pezzi di stoffa colorata cuciti insieme che penzolavano inerti dall'asta, nell'aria pungente di novembre, sotto un cielo così pesante e plumbeo dal far prevedere che una volta di più gli abruzzesi e Ribicchini non s'erano sbagliati.

I primi fiocchi caddero mentre eravamo in armeria a ritirare i fucili. Ci fu un rapido consulto tra Matullo, Sgueglia e un altro sottotenente. Mentre i tre discutevano smise di nevicare e prese a soffiare un vento teso e freddo che si faceva sentire anche nell'atrio della compagnia. Il Capitano non c'era; Sgueglia non se la sentiva di annullare l'esercitazione. E poi dopotutto neanche stava più nevicando. Il vento avrebbe portato via le nuvole. Potevamo anche andare. Problemi zero.

* * *

Il camion ci lasciò a Pietracamela, una di quelle località sciistiche pidocchiose dell'Appennino con casette finto svizzere e desolate spianate d'asfalto, mostruosamente triste in quella stagione morta. Di neve non ce n'era nemmeno lì, per cui né Matullo né Sgueglia si fecero prendere dal minimo dubbio, incuranti dello strato compatto di nubi che nascondeva la cresta del Corno Grande e le torri del Piccolo. Ci avviammo in fila indiana lungo una mulattiera poco fuori dal paese, col vento che tagliava la faccia ed entrava nel colletto della giacca a vento. Il cielo nessuno lo guardava, forse per badare a dove si mettevano i piedi, forse per non preoccuparsi inutilmente. Problemi zero.

Marciammo per un paio d'ore avanzando tra i prati bruciati dal freddo, poi entrammo in un bosco di faggi dai grigi tronchi spettrali. Le foglie secche si stendevano sul terreno come uno spesso tappeto di bronzo, che riduceva il nostro passo cadenzato a un fruscio sommesso. Cullato dal ritmo della marcia, persi subito il senso del tempo e smisi anche di preoccuparmi, grazie a quel modo di camminare che ci avevano insegnato a Orvieto e poi all'Aquila, a furia di consumare i tacchi degli anfibi sull'asfalto dei piazzali.

Quel ritmo regolare s'interruppe quando la pendenza del terreno cominciò ad aumentare sempre più sensibilmente e il tracciato del sentiero si fece meno lineare. Matullo, alla guida della marcia dato che la nostra squadra precedeva la 5^, consultava ogni tanto la cartina e scambiava qualche parola col caporale Bucci, un leccese alto e allampanato che fungeva da vice-caposquadra, dato che godeva della fiducia del nostro caporalmaggiore, forse perché quasi stupido come lui.

Giungemmo a un grosso faggio dal tronco bitorzoluto, sul quale la segnaletica del sentiero indicava una biforcazione. Due frecce tracciate con vernice rossa e gialla indicavano la destra e la sinistra, come per convincere le nostre squadre a separarsi. Avremmo infatti percorso strade diverse per raggiungere la Sella dei Grilli o del Grillo, ora non ricordo bene, dove ci saremmo ricongiunti per far ritorno insieme a Pietracamela. Almeno, questo era il programma. L'Esercito Italiano era però l'Esercito Italiano, e Matullo era Matullo: non potevano smentirsi. Non so che fine abbia fatto il nostro comandante di squadra dopo quella faccenda; spero bene che la sua domanda di rafferma sia stata respinta. Fu per la sua stupidità che Ribicchini morì e Giuseppe fuggì e io...

Ma andiamo con ordine.