Quando H.G. Wells scrisse The War of The Worlds, alla fine del diciannovesimo secolo, ben poco gli importava di scrivere una storia realistica su un invasione di extraterrestri. La fantascienza non era praticamente ancora nata, ma lo scrittore inglese aveva già capito il valore di questo genere narrativo: la possibilità unica, offerta dalla fantascienza, di parlare in modo indiretto di argomenti di attualità, anche scottanti. Di presentare le cose da un punto di vista del tutto diverso tramite il quale far capire concetti altrimenti difficili da recepire. A Wells interessava parlare dell’imperialismo inglese, gli interessava mettere in scena la catastrofe umana di una civiltà che viene smantellata, alla quale vengono spazzati via tutti i punti di riferimento, quando un’altra civiltà, più potente e infinitamente più progredita, almeno dal punto di vista tecnologico, decideva di prendersi il suo territorio e le sue risorse. L’inglese medio certamente avrebbe risposto a una critica del colonialismo affermando con sicurezza che la Gran Bretagna non faceva altro che portare la civiltà ai selvaggi. Ma avrebbe continuato a pensarla allo stesso modo se quello stesso inglese medio invece che dalla parte del colonizzatore si fosse trovato dalla parte del colonizzato? Se la civiltà sotto attacco fosse stata quella inglese e gli invasori alieni provenienti da un altro mondo, tanto evoluti e incomprensibili quanto gli inglesi dovevano apparire ai popoli dell’Africa?

L’idea di Steven Spielberg di rifare la Guerra dei mondi oggi era, a nostro avviso, decisamente appropriata. Soprattutto negli ultimi anni l’imperialismo dell’occidente ha subito un’impennata, i danni umanitari da esso causati sono forse ancora più gravi di quelli dell’imperialismo coloniale. Che quanto meno stabiliva un ordine, mentre quello attuale utilizza spesso le guerre civili per imporre e cambiare periodicamente le proprie leve di comando, con costanti immani perdite di vite umane. E certamente l’americano medio, che è altrettanto convinto che gli USA portino nel mondo la democrazia di quanto l’inglese fosse convinto di portare la civiltà, ha bisogno di poter vedere le cose da un punto di vista diverso.

Purtroppo l’operazione è riuscita solo in parte. Come già era accaduto con Minority Report, Steven Spielberg appare ancora afflitto da una sorta di schizofrenia autoriale. Da una parte c’è il regista pieno di buone intenzioni, dall’altra il produttore che non esista a stravolgere il lavoro del regista pur di andare incontro alle richieste del botteghino.

L’idea di Spielberg e del suo sceneggiatore David Koepp (che ne parla nell’intervista esclusiva pubblicata sul numero 46 di Robot, in uscita in questi giorni) era quella di distaccarsi il più possibile dal filone dei film catastrofici, concentrandosi sul punto di vista dell’americano medio, privato dei suoi consueti punti di riferimento come i notiziari televisivi. Perfettamente in linea con l’idea originale di H.G. Wells, il cui libro che viene anche citato, con la lettura di brevi brani da parte di una voce narrante (Morgan Freeman nell’originale), all’inizio e alla fine del film.

I primi problemi causati dal produttore Spielberg all’omonimo regista capitano subito, con la scelta dell’attore principale. In alcune intervista Spielberg ha spiegato che uno dei compiti più ardui che ha dovuto affrontare è stato quello di “decruisizzare” Tom Cruise: togliergli da dosso l’impostazione da protagonista, da divo, da agente segreto sicuro di sé e trasformarlo in una persona normale, un credibile sfigato qualsiasi. Una missione impossibile. L’espressività di Tom Cruise in questo film è migliore che nel resto della sua filmografia: alla sua solita espressione “io sono furbo” con la quale ha tirato avanti fino ad oggi ne aggiunge un’altra, che rappresenta “tristezza/disperazione/paura/insicurezza” (quale di queste si desume dal contesto), ottenuta mettendosi le mani sul volto. Ma siamo ben lontani da quanto richiesto da un film che doveva essere basato proprio sull’analisi psicologica dei protagonisti.

Se la piccola Dakota Fanning pur sfruttata male fa il suo lavoro, Justin Chatwin, anche lui come la bambina già visto in Taken, nella parte del figlio del protagonista riesce ad essere ancora più piatto di Tom Cruise. Gioco facile per Tim Robbins e persino per Miranda Otto apparire attori una spanna sopra agli altri in questa desolazione recitativa.

Nonostante i buoni propositi Spielberg non rinuncia a una generosa dose di effetti speciali, a grandiose scene di distruzione e di sterminio. In questo fa il suo lavoro con l’esperienza e la maestria che lo contraddistinguono, ed è soprattutto grazie a queste scene che riesce a costruire e mantenere quel minimo di tensione che sorregge il film.

La storia risulta essere abbastanza povera: dopo un’introduzione che descrive la famiglia americana media (loro divorziati, lui incapace di fare il padre, il figlio ostile ribelle), tanto comune quanto stereotipata, assistiamo a una interminabile fuga, mentre i “tripodi” alieni sono impegnati in un’opera di sistematica eliminazione degli esseri umani.

La storia della Guerra dei mondi di Wells è nota a tutti quindi non pensiamo di rovinare il finale a nessuno dicendo che la storia si conclude bene, ma Spielberg non si accontenta della fine degli invasori alieni rovinando quel poco che restava da rovinare chiudendo il film con un quadretto di famiglia, viva e vegeta fino alla terza generazione grazie a chissà quale miracolo, che più che portare sollievo fa urlare di rabbia lo spettatore.

Già ci siamo dovuti bere il fatto che gli alieni siano venuti sulla Terra senza prendere le più elementari precauzioni chimico-batteriologiche (potevamo bercela ai tempi di Wells, nel 2005 è ben più difficile), ma il lieto fine a tutti i costi, riconciliazione padre/figlio compresa, è stato davvero troppo.