Cosa fanno i nostri beniamini targati Marvel o DC Comics quando sono lontani dalla cinepresa? Le loro gesta supereroistiche riecheggiano nell’immaginario contemporaneo da decenni, arrivando spesso a condizionare il lessico del giornalismo. Quante volte abbiamo sentito esaltare l’operato di pompieri o di altri tutori dell’ordine? Persone comuni che, per il semplice fatto di aver compiuto il proprio dovere invece di dormire, per la banale circostanza di non essere dei corrotti, per la curiosa ostinazione a prendere sul serio il proprio lavoro, sono dipinti come supereroi. Nell’immaginario occidentale c’è sempre stata la ricerca di esempi edificanti per bilanciare la nettissima superiorità numerica del male che cola dalle pagine di cronaca nera. Impresa difficile oggi visto che l’epoca degli eroi di guerra è finita da un pezzo.

Dopo gli anni Ottanta, il crollo delle grandi ideologie e l’accensione di focolai bellici per motivi affaristici hanno stimolato una dilagante ondata di cinismo nell’opinione pubblica occidentale. In campo artistico questo disincanto ha spianato la strada ai capolavori iconoclastici e nichilisti degli anni ‘90. I romanzi di James Ellroy, la musica di Kurt Cobain e dei Nirvana, il cinema di Oliver Stone, Quentin Tarantino e Martin Scorsese ci hanno mostrato la via sporcando un pochetto la bandiera a stelle e strisce.

Ma dopo il massacro della Columbine High School (1999) e l’attacco alle torri gemelle (2001) è cambiato qualcosa. Come se la cronaca nera avesse acquisito una nuova dimensione, insinuando nel pubblico più di un dubbio su quella diga tra finzione e vita reale. Le cronache sempre più frequenti di massacri compiuti da crociati solitari o da jihadisti sociopatici, sono spesso così spettacolari e surreali da far pensare a generi narrativi molto specifici. Un tempo l’immaginazione collettiva si appuntava nomi come Al Capone o John Dillinger. Con i film di rapina e con i western si sognava il grande colpo: questo era il massimo della proiezione avventurosa per l’uomo della folla. Oggi invece certe cronache ci ricordano il fumetto supereroistico, l’action movie se non addirittura la fantascienza. Il problema delle contemporaneità consiste proprio nel fatto che i confini della fiction diventano sempre più sfocati. Un cerchio che si chiude: uno dei maestri della fantascienza e del fantastico è stato Edgar Allan Poe che era anche uno dei padri putativi di quella che oggi chiamiamo “cronaca nera”.

Con la strage di Charlie Hebdo e i video delle decapitazioni dei giornalisti la guerra cinematografica dell’ISIS entra nelle nostre case. Balzare al di qua o aldilà della linea resta un’esclusiva riservata a psicopatici o ad individui che non hanno nulla da perdere. Il concetto di doppia identità che, nella storia dell’industria culturale è sempre stata un’esclusiva dei supereroi a fumetti, ora approda nel mondo reale e si lega alle imprese criminose del terrorista dal volto coperto. Signore e signori, ecco a voi lo specchio in negativo del supereroe con maschera e calzamaglia.

Poco dopo l’attacco alle torri gemelle, i successi dello Spider-man di Sam Raimi (2002) hanno inaugurato un filone cinematografico Marvel ancora oggi in forma smagliante. Ovvio che in questi anni, gli sviluppi delle tecnologie audiovisive e della computer grafica hanno dato un potentissimo impulso al fantastico cinematografico. Ma dal punto di vista narrativo, si notano delle importanti mutazioni nella narrativa superomistica. Intanto la saga dell’arrampicamuri cinematografico sembra spesso un inno alla città di New York (ormai simbolo dell’Occidente che non si piega) e alla sua voglia di risorgere sollevandosi sulla schiena di persone comuni come lo zio Ben, come l’operaio che manovra una gru, come il passeggero della metropolitana o come il ragazzo che consegna la pizza. Con il cinema Marvel il motto “da grandi poteri derivano grandi responsabilità” conduce spesso ad uno spazio affettuoso riservato alle persone comuni. Proprio lo sguardo di costoro segna la punteggiatura dell’azione eroica con intensi e improvvisi primi piani. Insomma è della gente comune la soggettiva psicologica delle scene d’azione in questi film: sono gli sguardi terrorizzati e affabulati di quelle formiche umane continuamente sospese tra la fuga dalle apocalittiche devastazioni scatenate dalle forze del male e il fascino delle spettacolari entrate in scena dei supereroi.

Oggi più che mai i media si sentono investiti della responsabilità di dover combattere una guerra culturale in cui i modelli dominanti dal secondo dopoguerra in poi vacillano e devono essere rivitalizzati. Solo che il terrorismo di matrice jihadista o neonazista non ha niente di culturale. Non è uno scontro fra culture ma una guerra sul terreno della mitomania o meglio sul mercato della visibilità. Il marketing dell’Apocalisse si basa su una generica quanto pretestuosa ribellione ai modelli culturali imposti dall’Occidente opulento. Il califfato del pensiero unico risponde con l'orrore kamikaze all'etnocentrismo del nostro villaggio globale. Il villaggio globale risponde esaltando l’uomo comune e i muscoli dell’industria culturale.