L'ultimo rilevante cambiamento del film riguarda proprio il finale. La Compagnia di Tolkien si

concludeva, per la verità alquanto discutibilmente, con la battaglia su Amon Hen e la fuga di Frodo e Sam verso Mordor, posticipando la morte di Boromir al primo capitolo delle Due Torri. La morte di Boromir acquista invece tutta la sua epicità nel finale del film dove rappresenta l'evento-chiave: la sua caduta e redenzione conseguente al desiderio di rubare a Frodo l'Anello, e successivamente l'accettazione della regalità di Aragorn a cui dedica le ultime commoventi parole, danno giustizia a uno dei personaggi non a caso più amati dalla sceneggiatrice Philippa Boyens che, nonostante la sua tenace fedeltà alla lettera di Tolkien, fu per qualche tempo soggetta alla tentazione di resuscitare Boromir nelle Due Torri. Ma il grande omaggio all'immaginazione dell'autore resta nei particolari indimenticabili: nel trasporre sullo schermo i sogni di Tolkien, dalle onde del fiume trasformate in bianchi cavalli ai colossi degli antichi re di Gondor che vegliano sulle cascate di Rauros, passando per la porta tonda di legno verde di Casa Baggins identica all'originale disegnato da Tolkien e per i discorsi in elfico che gli autori insistono nell'inserire per mantenere quell'aurea di “alienità” che caratterizza la razza degli Elfi come dipinta nel Signore degli Anelli.

Per cui si può senz'altro ammettere che persino il più feroce dei critici, quello stesso Tolkien che aveva non per altro bocciato senza appello le prime proposte di trasposizione cinematografica, avrebbe spezzato una lancia a favore del lavoro di Peter Jackson nel rendere reale il mondo – irreale per definizione – della Terra di Mezzo.