Il canale televisivo americano Sci-Fi Channel, prima di diventare SyFy per limare un po’ la patina troppo hard del suo nome e accontentare gli appassionati di fantasy e soprannaturale, vanta una serie di produzioni che hanno permesso ai neofiti della fantascienza di avvicinarsi ad alcune opere imperdibili. Tra tutte, la miniserie in tre puntate Dune, in Italia intitolata Dune – il destino dell’universo, diretta da John Harrison e trasmessa per la prima volta nel 2000, ha lasciato il segno per la sua capacità di offrire un “primo contatto” con l’universo creato da Frank Herbert più abbordabile, più friendly sia del suo capolavoro letterario che della celebre trasposizione d’autore sul grande schermo di David Lynch. In chi conosceva già l’opera di Herbert, la fiction televisiva ha provocato reazioni contrastanti, come d’obbligo in ogni trasposizione. Ma, a distanza di anni, e dopo un fortunato sequel, I figli di Dune, vale la pena tornare sulla miniserie americana per spezzare una lancia a suo favore.

La lunghezza complessiva, circa 3 ore e 40, ma diluita in più puntate, permette un buon margine di manovra per accostarsi al romanzone di Herbert. Del resto già Lynch aveva girato il suo film in tempi molto simili, poi passati sotto le cesoie dei distributori (e principalmente del distributore italiano, che l’aveva ridotta a poco più di due ore). Il budget, rilevante per una produzione televisiva, permette, quando si chiude un occhio davanti alla computer grafica, di dimenticare l’effetto piccolo schermo, grazie anche a una fotografia molto curata, affidata al tre volte premio Oscar, Vittorio Storaro, e ai costumi che recuperano i bozzetti di Moebius per il film mai realizzato di Alejandro Jodorowsky. E la fedeltà al romanzo, con buona pace dei puristi, è piuttosto alta, seguendo la volontà del regista. Moltissimi dialoghi, soprattutto nella prima parte, sono riportati fedelmente dal romanzo. Manca, inevitabilmente, lo stile di Herbert, caratterizzato dalla forte vena intimista, che lo porta a prediligere i pensieri dei protagonisti piuttosto che i loro dialoghi; ma non è certo un peccato, se si ricorda il pessimo effetto sortito dal film di Lynch, che tentava di trasporre anche questa scelta tecnica intraducibile al cinema.

Influenze della versione cinematografica ce ne sono comunque, e molte. I vermi giganti, in particolare, e la scena – che pare in pratica una citazione – di Paul e la madre che si rifugiano in un nascondiglio in una parete di roccia per sfuggire al verme la cui bocca spalancata si intravede dalla crepa. L’omaggio a Lynch è evidente fin dall’inizio, nel monologo che introduce lo scenario che fa da cornice alla vicenda di Dune, affidato alla principessa Irulan, che nel romanzo appare solo di sfuggita nelle ultime pagine (ma i cui stralci memorialistici sono riportati da Herbert spesso all’inizio di ogni capitolo). Nel tentativo di citare o di scopiazzare, a seconda del punto di vista, John Harrison gioca molto sulla fantomatica tecnica estraniante che Paul insegna ai Fremen per combattere gli Harkonnen. Nel romanzo di Herbert, la Pranu Bindu è una tecnica complessa che sfocia nella filosofia; nel film di Lynch, per semplificare, diventa una sorta di superarma. E così torna anche nella fiction televisiva, nella forma di un’astrusa capacità di compiere movimenti più veloci di quelli che l’occhio riesce a cogliere, dando l’impressione che un Fremen scompaia e ricompaia un secondo dopo da un’altra parte.

Gli sfondi dipinti, invece che realizzati in CGI, secondo le volontà degli scenografi e del

Frank Herbert
Frank Herbert
direttore della fotografia, si rivelano una scelta azzeccata. L’occhio criticò non impiegherà molto a cogliere il fatto che tutte le scene sono in interni, ma il budget è quello che è e ladecisione di non strafare con gli effetti speciali avrebbe probabilmente fatto contento Herbert, nonché Lynch, la cui visione di un universo low tech costituisce uno dei punti di forza di Dune. (Paradossalmente, e detto tra parentesi, il low tech aveva fatto anche la fortuna del primo Guerre stellari, laddove la trilogia sequel volta le spalle alla scelta originale e crea un intero universo in blue screen). ;;Superba la resa visiva di Giedi Primo, capitale degli Harkonnen, che nei colori e nei dettagli architettonica riproduce perfettamente il senso di potenza di facciata e di opulenza del casato del ciccioso barone. Più scadente Arrakeen, la capitale di Arrakis, che si limita a un piccolo villaggio di catapecchie al cui centro si erge l’enorme palazzo del governo, che potrebbe tranquillamente inglobare tutta la città al suo interno (ricorda un po’ il palazzo del sultano di Aladdin nel film Disney).