Assicurandosi 11 premi Oscar, Il Signore degli Anelli – Il Ritorno del Re chiudeva nel 2003 la titanica opera di Peter Jackson, consacrando anche nella storia del cinema la trilogia di J.R.R. Tolkien che già si era assicurato un posto di primo piano nell’Olimpo della letteratura mondiale. Con Il Ritorno del Re cui grandezza e semplicità si fondono perfettamente, mostrando come Peter Jackson durante la lavorazione di quest’ultimo capitolo – che comunque è avvenuta parzialmente in contemporanea con gli altri due – non si è montato la testa né ha forzato la mano nel tentare di creare un film biblico in tutti i sensi. E allora ecco che la prima scena propone un paesaggio bucolico e beato, ricco di bonaria semplicità, e mostra nel più spaventoso e diretto dei modi il potere dell’Anello e i tragici effetti di una malvagità che viene a scombussolare il quieto vivere degli uomini. Semplicità anche nell’ultima parte della grande impresa di Frodo: nell’oscurità della fine, quando Sam e Frodo arrancano sulle pendici del monte Fato, una musichetta sottile e ricca di speranze fa da sfondo all’ultimo, estremo tentativo di Frodo di reggersi con le proprie gambe. Ma anche, naturalmente, un film di magnifica grandiosità, un film che fa letteralmente spalancare gli occhi (per parafrasare Sam ne La Compagnia dell’Anello). Le riprese mozzafiato durante la battaglia di Minas Tirith e la cavalcata trascinante dei Rohirrim, con il discorso suggestivo di Theoden («Un’alba di spade, un’alba rossa prima che sorga il sole!»), l’affascinante scena in cui i fuochi di Gondor si accendono uno ad uno, con effetto domino, sui luoghi più impervi della Terra di Mezzo a sottolineare le precedenti parole di Gandalf: «la speranza divampa».

Oltre che a un’opera visiva, Il Signore degli Anelli di Jackson è anche – e col Ritorno del Re una volta di più – un’opera musicale. Non per nulla Howard Shore, il formidabile compositore della colonna sonora della trilogia già premio Oscar per La Compagnia dell’Anello, bissa il successo in questo film. Un lavoro che supera i precedenti parametri. La musica questa volta deborda in ogni scena della pellicola, e quando non c’è sottolinea meglio di ogni altra cosa i momenti più toccanti. Howard Shore si fa ancora più sinfonico in questo film, componendo musiche che non solo valorizzano le scene visive, ma fanno un’ottima figura anche da sole – un effetto che le moderne colonne sonore stentano a ottenere. Un intermezzo musicale vocale è tra i più alti momenti del film: la canzone morbida e melanconica di Pipino che fa da commento solitario alla scena dell’inutile massacro della compagnia di Faramir a Osgiliath. Pezzo che merita di entrare nella storia del cinema.

In tutti i film in cui gli effetti speciali giocano una parte importante, l’elemento interpretativo è sempre subordinato a quello meramente visivo. Il Signore degli Anelli si discosta completamente da questi ‘canoni’, proponendosi come film alternativo in tutti i sensi. Anche se i premi dal punto di vista della recitazione non si sono fatti vivi, ciò non significa che ll Ritorno del Re abbia perso una parte della sua bellezza per la scarsa bravura degli attori. Altroché. Interpretazioni shakespeariane, nella miglior tradizione tolkieniana, e degne di plauso sono quelle di John Noble nei panni di Denethor, personaggio già ricco di spessore nel romanzo stesso, e qui trasposto perfettamente con i suoi dubbi amletici-macbethiani. Ian MacKellen come Gandalf s’impone ancora una volta come uno stereotipo cristiano (l’aspetto lo riecheggia

chiaramente), riproponendo la linea già usata da Jackson ne Le Due Torri ma “peccando” spesso di umanità, specie nel cuore della battaglia di Minas Tirith, in cui si pone come condottiero spietato (ma la sua guerra è contro il Male assoluto, ed è dunque giusto combatterla). Viggo Mortensen – interprete di Aragorn – sfata i dubbi di coloro che non lo vedevano bene nei panni regali, essendo abituati a considerarlo un ramingo sporco e sanguinolento: in realtà il dissidio interno di Aragorn tra la sua eredità di re e il suo addestramento da ‘uomo qualunque’ è accentuato da Jackson rispetto a quanto presente nel romanzo di Tolkien, ma perfettamente trasposto grazie a una capacità recitativa “a immersione totale” quale quella di Mortensen.

Difficoltà si sono sicuramente trovate di fronte al cambiamento radicale delle personalità di Pipino e Merry, che nei primi due capitoli fungevano da ‘spalle comiche’ (in realtà già ne Le Due Torri vi è una visibile trasformazione). Seppure all’inizio del film appaiano intenti a gozzovigliare scambiandosi battute demenziali, è innegabile che la loro candida dabbenaggine subisca un rovesciamento nel corso del film: basti pensare al canto struggente di Pipino davanti a Denethor e come sia diverso dai semplici motivi da taverna che gli hobbit sono soliti cantare (e anche nella prima parte di questo film). Non c’è nessun contrasto stridente tra i ‘vecchi’ e i ‘nuovi’ Merry e Pipino, perché la loro evoluzione psicologica segue la stessa linea dell’evoluzione dello spettatore, che nel Ritorno del Re cade sempre più in un baratro di assoluta disperazione e perde il suo punto di osservazione esterno finendo per lottare egli stesso per la salvezza della Terra di Mezzo.