Il sacrificio e il coraggio, la fedeltà e l’amicizia, la bontà d’intenti e la nobiltà d’animo, sono i valori cari a Tolkien e che Jakcson riprende contrapponendoli a quelli che Sauron cerca di diffondere: la menzogna,

l’avidità, la codardia, l’egoismo. Perché più che aver fedelmente trasposto la trama del romanzo, Jackson e le sue due co-sceneggiatrici hanno soprattutto badato a trasporre i concetti tolkieniani che sono alla base della saga. Dal punto di vista della fedeltà al romanzo, infatti, Il Ritorno del Re è sicuramente il più carente. Non solo, come del resto i fan del libro da tempo sapevano, si glissa completamente sulla Contea oppressa da Saruman, ma lo stesso Saruman svanisce del tutto, così come il suo servo Grima. In realtà Saruman e Vermilinguo erano presenti nella pellicola originaria, ma Jakcson non ha trovato proprio il modo di inserirli e la scena della morte dei due è stata trasferita al DVD. Cambiamenti minori sono un po’ dovunque: per aumentare il valore del sacrificio di Sam, abbiamo una sconvolgente scena in cui Frodo mette da parte il suo amico e gli chiede di tornare a casa (come se fosse poi possibile!); per accelerare il finale, il risveglio di Frodo avviene a Minas Tirith e non nell’Ithilien, e tutta la scena dei festeggiamenti ai mezz’uomini è trasferita nel momento dell’incoronazione ad Aragorn. Ma sono più che altro piccole e innocue forzature. Più difficili da interpretare sono gli stravolgimenti attuati nei confronti di un personaggio chiave, Denethor: non solo non viene spiegato il perché il sovrintendente di Gondor cede alla pazzia (anche se nel film vi si accenna molto implicitamente: “Ho visto molte cose”, dice Denethor, sottintendendo l’uso del Palantir attraverso il quale Sauron corrompe il sire), ma anche la sua morte perde una parte del suo significato, poiché Denethor non muore stoicamente tra le fiamme afflitto dalla sua pazzia ma sembra rinsavire e preferisce morire in modo visivamente più colossale, gettandosi dalla rupe.  L’aspetto scenografico del film è davvero curato. In particolar modo spicca Minas Tirith, la rocca di Gondor superba nella sua magniloquenza, che sottolinea ancora di più la differenza con Edoras, la capitale di Rohan. Una mescolanza di stili, da quelli classici a quelli medioevali e rinascimentali (la collina su cui si erge il palazzo del re) dà una verosimiglianza incredibile a questo luogo che – a volte è importante ripeterlo perché si può dimenticare il particolare – non esiste. Interni ed esterni maestosi, curati fino al minimo particolare. Minas Morgul è un po’ stonata rispetto a come dovrebbe essere, se si tiene conto che inizialmente era stata edificata dai gondoriani e doveva fungere da ‘gemella’ di Minas Tirith. Qui è invece resa come una piccola Barad-dur, con effetti un po’ dark-punk davvero singolari ma evocativi. Singolare ma evocativo anche l’effetto dell’Occhio di Sauron che si comporta da faro mentre visiona le sue truppe a Mordor, dando la sensazione di essere un onnisciente carceriere che controlla i suoi detenuti. Epocale, infine, il Monte Fato, il cui interno avevamo già avuto modo di vedere un paio di volte ne La Compagnia dell’Anello ma che qui assume tutto un altro pathos di fronte all’evento culminante della saga. E la Contea, per terminare, così semplice e soprattutto così immutata, dona alo spettatore un inaspettato conforto finale, persa com’è nel suo mondo, a dimostrare che al mondo esistono cose che “sono fatte per durare”; ma ricordiamo ancora la stonatura con il messaggio di Tolkien, che nel romanzo ci racconta di una Contea irriconoscibile dalle malefatte di Saruman, e ci dice che invece il Male raggiunge tutti e nulla può mai tornare ad essere come prima. Messaggio che Jackson riesce però in parte a recuperare nel finale, quando Frodo, impossibilitato a tornare ad essere l’hobbit spensierato di una volta dopo aver conosciuto tanto male, parte infine dai Porti Grigi insieme agli ultimi residui del vecchio mondo: Elrond, Galadriel, Celebrimor, Gandalf e Bilbo. Con l’uguale senso crepuscolare e malinconico che Tolkien ci fa vivere nelle ultime pagine del romanzo, Jackson termina la sua trilogia sulle note dell’incantevole Into the West cantata da Annie Lennox, spiegando allo spettatore che «la morte è soltanto un’altra via, che dovremo prendere tutti».