Ancora manufatti dell’uomo sono i protagonisti di Blade Runner, gli androidi umanoidi che hanno imposto nel nostro immaginario la figura del replicante, la copia identica all’originale in grado di superare in ambizioni e umanità i suoi stessi creatori. Questi simulacri rappresentano l’avanguardia di una nuova umanità, potenzialmente libera dai vincoli della natura umana, da quei difetti di programmazione che possono rendere difficile il nostro cammino lungo il sentiero della vita, ma per questa ragione vengono limitati artificialmente dai loro artefici in ragione di un protocollo di sicurezza che in realtà ambisce solo a preservare nelle mani dell’uomo il pieno controllo della vita. I replicanti sono resi sterili e le loro vite vengono limitate alla durata standard di 4 anni. È così per tutti i modelli della serie Nexus-6 della Tyrell Corporation, fatta eccezione per Rachael/Sean Young, il replicante "speciale" di cui si innamora Deckard/Harrison Ford (il cacciatore di androidi, nonché "Distruttore delle Forme" nell’efficace ritratto che ne fa Philip K. Dick nel romanzo ispiratore del film), che forse reca codificato nei suoi geni alterati il segreto dell’immortalità o, se non altro, di una vita "umana".

Sempre in tema di manipolazioni biotech, in Gattaca – La porta dell’universo (1997), noir futuristico scritto e diretto da Andrew Niccol, veniamo trasportati in un futuro da incubo, retto dalla programmazione genetica della popolazione. Chiunque non sia stato geneticamente condizionato all’atto del concepimento viene sistematicamente tagliato fuori da determinati impieghi. Il sistema avrebbe condannato Vincent Freeman (Ethan Hawke) a un destino di mediocrità, se non fosse che lui si è messo in testa di intraprendere la carriera di astronauta e partecipare a una missione su Titano. Esposto in egual misura alla debolezza della miopia come all’impeto delle emozioni, non valido in un mondo congegnato a regola d’arte e preciso come un meccanismo a orologeria, Freeman sfida l’obbedienza dogmatica di una società futura levigata fino all’astrazione e ben resa nelle scenografie alienanti, gelide e monumentali di Jan Roelfs. Infiltratosi a GATTACA, zaibatsu il cui nome evoca una stringa di DNA, diventerà un hacker genetico pronto a tutto pur di varcare la porta delle stelle. Uma Thurman, altera e diafana, e Jude Law, essere geneticamente perfetto (come suggerisce il nome del suo personaggio, Jerome Eugene Morrow) ma condannato all’autodistruzione, lo aiuteranno a compiere il suo sogno.

Il tema centrale di questa piccola perla di Niccol è il conflitto tra predestinazione e forza di volontà. Dove si ferma l’effetto dell’intervento umano e dove comincia, invece, il campo d’azione della volontà? Il nostro futuro è davvero scritto tutto in una sequenza di informazioni di base? E in cosa consiste essere umani? A questi interrogativi cerca di fornire una risposta plausibile e non retorica la pellicola prodotta da Danny De Vito, ammirevole tanto sotto il punto di vista della realizzazione estetica che per il rigore dell’indagine critica, all’altezza della migliore fantascienza di stampo sociologico.  

Metamorfosi dei corpi, della mente e dei mondi

Andrew Niccol tornerà a battere la pista postumanista nel 2001 con S1m0ne, intelligente commedia degli equivoci incentrata su una diva creata al computer per soddisfare i gusti del maggior numero di potenziali spettatori (ricordate Aidoru?), nonché del suo creatore. Viktor Taransky (sua maestà Al Pacino) è un regista sull’orlo del fallimento, licenziato dalla ex moglie produttrice e braccato dai creditori, finché un giorno dal cielo gli piove un’eredità che gli cambia la vita. Deus Ex Machina in forma di codici binari, si tratta del Simulation One: un software in grado di assemblare un attore virtuale a piacimento del regista. Digitalizzare una stella non è un problema. Basta impostare i parametri del software e il gioco è fatto. Bella, versatile, economica. Fin troppo comodo. Nella parabola di Taransky, alla generazione segue il trionfo, la consacrazione da parte dello star-system con tutte le isterie e le cerimonie di rito: pedinamenti dei paparazzi, foto satellitari, inseguimenti nei deserti. Una Simone-mania su scala planetaria, paradossalmente culminata con un mega-concerto sulle note del classico di Carole King: "…you make me feel like a natural woman…". Poco importa che a cantare sia un impalpabile prodotto virtuale. Le folle impazziscono, e la finzione si impone sulla realtà. D’altronde, come spiega il disincantato Taransky: "è più facile far credere qualcosa a 100.000 persone che a una sola". Altra parabola e altra riflessione. Su un mondo governato dall’immagine, dove a definire i parametri del credibile è la demiurgica attività dei media. "L'intrattenimento è illusione in sé, ma il pericolo nasce nel momento in cui gli stessi meccanismi operano in ambiti come il giornalismo o la politica" rivela Niccol. Simone con la sua scelta di entrare in politica fornisce una amara e degna conclusione alla parabola dei nostri miti odierni.