Uno dei meriti innegabili che chiunque dovrebbe essere disposto a riconoscere alla fantascienza è la sua straordinaria capacità di rinnovamento. La sua storia è la storia di un secolo, percorre tutto il Novecento: si potrebbe quasi dire che è figlia ed espressione del secolo appena trascorso, che di traversie ne ha viste parecchie. Con la sua straordinaria concentrazione di eventi, tragedie, scoperte e rivoluzioni, il Novecento è stato esso stesso il secolo del cambiamento: ha visto la nascita di almeno due teorie rivoluzionarie (la relatività e la meccanica quantistica), ha vissuto almeno due grandi rivoluzioni dagli esiti discutibili (il trionfo e il crollo del comunismo), e ha attraversato almeno tre fasi tecnologiche cruciali, di cui ancora oggi apprezziamo la ricaduta e subiamo le conseguenze: la corsa allo spazio, l’avvento della radio/televisione e l’esplosione di internet.

La fantascienza non è rimasta al palo: genere mutante e adattabile, ha saputo rigenerarsi dalle sue ceneri, sopravvivendo alle amputazioni impostele dalla realtà. Come risultato di questa continua evoluzione, ogni stagione ha avuto la sua fantascienza. A ondate ripetute, il genere è stato investito da venti di cambiamento: il filone sociologico degli anni Cinquanta, la New Wave sbocciata nei Sessanta e protrattasi nei Settanta, il cyberpunk negli Ottanta.

Se il genere si fosse limitato all’estrapolazione pura e semplice, probabilmente non avrebbe fatto molti passi avanti rispetto al canone di John W. Campbell. L’elaborazione dei dati del presente certamente fa parte del codice genetico della fantascienza, portata per vocazione e istinto a interpretare le suggestioni e, perché no, i pericoli evocati dal progresso. Ma una narrativa esclusivamente basata sull’anticipazione si espone a due rischi: la smentita oppure, risultato persino peggiore, il superamento.

Quel 10% della fantascienza che non è spazzatura, per fortuna, è anche qualcos’altro: è trasfigurazione e, nei casi migliori, poesia.

L’era dell’informazione in cui viviamo ha prodotto la prima intersezione dell’immaginario con il quotidiano. La fantasia, per la prima volta, è stata battuta dalla realtà quando pirati informatici – ispirandosi ai cowboy della consolle di Gibson e soci – sono finiti sulle pagine di cronaca dei giornali subito dopo essere usciti da quelle dei libri. L’evento, ripetutosi per la verità a più riprese, ha smascherato la crisi del cyberspazio, metafora evolutasi per linea diretta dallo spazio interiore di ballardiana memoria (il celeberrimo inner space sorto in contrapposizione all’outer space, lo spazio esterno dell’avventura interplanetaria). L’impasse si è rivelato più duro del previsto: se James G. Ballard, nel documento programmatico della New Wave (Qual è la strada per lo spazio interiore, 1962, originariamente pubblicato sulla rivista “New Worlds”), denunciava la mancanza di idee di una fantascienza proiettata alla cieca verso lo spazio esterno, una certa fantascienza degli ultimi anni ha riesumato il cadavere della peggiore space opera e avviato bizzarre forme di ibridazione con gli schemi lanciati dal cyberpunk. Sono convinto che non sia questa la strada più promettente per assicurare un futuro alla fantascienza.

La sperimentazione fine a se stessa non è mai stata una soluzione alla crisi d’idee. Il tentativo appare tanto più maldestro quanto maggiore è la disponibilità di risorse concettuali e immaginifiche ignorate da chi scrive. Negli ultimi anni, nuove importanti teorie scientifiche si sono imposte all’attenzione del mondo della ricerca e, allo stesso tempo, appaiono sempre più necessarie – oltre che prossime – nuove rivoluzioni tecnologiche che presumibilmente sconvolgeranno il nostro stesso rapporto con la quotidianità: se le biotecnologie sono ormai ben altro che una promessa, prima di quanto non ci si aspetti potrebbero entrare nelle nostre vite nanotecnologie e processori quantistici. Ma è forse nella fisica pura, su un campo che non di rado sembra sconfinare nell’indagine metafisica, che il futuro ci riserva le maggiori sorprese: illustri scienziati (Jacob D. Bekenstein, Juan Maldacena, Leonard Susskind, Gerard ‘t Hooft) stanno sviluppando la teoria dell’olomovimento di David Bohm (un concetto che descrive l’ordito della realtà come “una totalità indivisa di movimento scorrevole”, che racchiude un duplice riferimento alla visione olistica della realtà e all’olografia, intesa proprio come inganno dei sensi) e stanno spingendo le sue intuizioni verso conseguenze inattese, che potrebbero gettare le basi per la tanto sofferta conciliazione della relatività einsteniana con le leggi quantistiche. Se l’attenzione di Bohm non ha risparmiato nemmeno le neuroscienze, con la concezione di un modello olonomico della mente frutto della collaborazione con il neuro-psicologo Karl H. Pribram, il principio olografico di ‘t Hooft e Susskind rischia davvero di sovvertire l’ordine acquisito della nostra percezione del mondo, riducendo l’universo a uno spazio bidimensionale: la terza dimensione dello spazio e la gravità stessa (a tutt’oggi la più misteriosa delle forze fondamentali) altro non sarebbero che un’illusione prodotta da determinate interazioni di campo sulla “superficie fotografica” della realtà.