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Nei giorni di maltempo, il postino non mancava mai di imprecare tra sé all’indirizzo di Dominique Aulard che, per la natura del suo lavoro, era ormai uno dei pochi privati cittadini che riceveva ancora plichi e posta cartacea. Quel giorno la corrispondenza si limitava, per fortuna, a una sola, leggera busta gialla che lo studioso squadrò con curiosità sull’uscio di casa. Il postino salutò a mezza voce e girò sui tacchi, mentre Aulard rimase ancora sulla soglia meditando sull’improbabile mittente. Non aspettava posta: le biblioteche e le emeroteche, alle quali si rivolgeva per farsi inviare da mezzo mondo le copie dei materiali che gli servivano, erano ormai in ferie, in quei primi giorni di agosto; ed erano le sue principali corrispondenti. Non aveva certo mai ricevuto posta da un’abbazia. Eppure, il mittente della lettera era chiaro: Abbazia di Novacella, in provincia di Bolzano, Alto Adige, Italia. Dovette ammettere tra sé di non averla mai sentita. Ritornato alla scrivania del suo studio, cercò il tagliacarte e aprì la busta con la pedante meticolosità del bibliofilo.

Ne uscì fuori un ritaglio e una busta più piccola, bianca, chiusa. L’indicazione dei versetti sul ritaglio non lasciava dubbi sulla provenienza di quel foglio. Il mittente aveva sottolineato con un tratto a matita – il cui solco tradiva una mano malferma – un passo che ad Aulard, poco esperto di Bibbia, non era però del tutto sconosciuto: — Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come perfettamente sono conosciuto —. La Prima lettera di San Paolo ai Corinzi, rifletté Aulard. Non gli diceva molto. Che storia era mai quella? Si affrettò ad aprire la busta bianca. Gli bastò un’occhiata per trasecolare. C’era una lettera scritta a mano con una grafia non chiarissima, ma prima di leggerla Aulard aveva gettato lo sguardo su due foto. Una era, per lui, famosissima: ritraeva Bartolomeo Vincentini negli anni della notorietà. Ma fu l’altra a fargli capire, con un solo sguardo, la portata di quel messaggio: nonostante i capelli bianchi che incorniciavano quel viso segnato da tante piccole tracce del tempo e la barba ispida, incolta, che ne ammorbidiva il celebre mento appuntito, l’uomo nella seconda foto era senza ombra di dubbio lo stesso Vincentini. Doveva essere vicino agli ottant’anni. Aulard chiuse gli occhi e richiamò alla memoria l’anno di nascita dello scienziato: il ’97 o il ’98? Doveva controllare. Ma prima decise di leggere la lettera. Aveva avuto accesso a diversi manoscritti di Bartolomeo Vincentini, e ne riconobbe – nonostante il tratto confuso – la grafia. Erano solo poche righe, scritte in francese: “Gentile professore, so che lei sa molte cose di me e dei miei colleghi. Come vede, anche io so molte cose. Venga a trovarmi: presto anche io lascerò questo mondo. Ma prima voglio farle sapere qualcosa. Venga, ma sappia che conoscere la verità è spesso rischioso”.

Non c’era firma. Aulard riprese in mano la busta per accertarsi di aver letto bene. Abbazia di Novacella. La fine di una ricerca durata una vita era a poche centinaia di chilometri da casa sua. Lì si trovava l’ultimo dei Sette. Era scomparso da più di trent’anni.

2

 

 

Parcheggiata la macchina sul selciato reso polveroso dal caldo e della perdurante assenza di pioggia, Aulard sapeva ormai cosa aspettarsi.

Era partito il giorno dopo aver ricevuto la lettera, con una valigia in cui aveva ammassato roba un po’ alla rinfusa, ma aveva avuto il tempo di compiere qualche ricerca. Nonostante la sua ignoranza sull’argomento, aveva scoperto che Novacella era un’abbazia molto nota nell’area. Vi abitavano dei monaci agostiniani, che preservavano tradizioni plurisecolari, ma che avevano saputo adeguarsi ai tempi nuovi aprendosi al turismo. Aveva poco dell’austerità che Aulard attribuiva nella sua immaginazione ai monastri. Mentre si avviava all’ingresso, osservò sciamare intorno a sé famiglie con bambini, altoatesini con grossi boccali di birra, abbronzati turisti in canotta e pantaloncini.

— Sono Dominique Aulard, vengo dalla Francia —, annunciò in quello che riteneva un buon italiano alla reception. — Sono stato invitato da uno dei padri canonici —. Si chiese se dovesse fare il nome di Vincentini. Improbabile: aveva letto su Internet i nomi dei canonici dell’abbazia e non l’aveva trovato. Ma era assolutamente certo che si era fatto monaco. Aveva riletto tutti i suoi appunti su Bartolomeo Vincentini e si era chiesto perché non ci fosse arrivato prima. Veniva da una famiglia di tradizione cattolica, e i suoi scritti teorici non disdegnavano metafore religiose. Aveva vinto, nel ’41, il Templeton, il prestigioso premio dedicato agli scienziati che ampliavano gli orizzonti della fede. Non solo un uomo del genere non si poteva suicidare tanto facilmente, ma era esattamente il tipo di persona che si poteva immaginare venisse accettato da dei monaci di clausura. Eppure, la sua famiglia non ne sapeva niente, di questo Aulard era sicuro. Ma se Vincentini era vivo, doveva essere riuscito a capire cosa era successo agli altri Sette.