James Lovelock è un autore particolarmente amato dagli scrittori di fantascienza. Chimico, ecologo, futurista, fu probabilmente d’ispirazione per Frank Herbert quando scrisse il suo capolavoro Dune (1966), in cui l’ecologia del pianeta eponimo veniva considerata come un sistema in grado di autoregolarsi e adattarsi ai cambiamenti, come avrebbe scoperto uno dei personaggi del romanzo, l’ecologo imperiale Kynes. Nel 1979 Lovelock pubblicò Gaia. A New Look at Life on Earth, in cui la sua “ipotesi Gaia”, formulata negli anni Sessanta insieme alla biologa Lynn Margulis, venne esposta in forma divulgativa. Isaac Asimov fece di Gaia la chiave di volta del suo ciclo della Fondazione, nei romanzi L’orlo della Fondazione (1982) e Fondazione e Terra (1988), in cui un pianeta con quel nome, dove gli abitanti vivono in armonia con la biosfera planetaria, è un esplicito omaggio alla teoria di Lovelock. Nel 1994 Orson Scott Card, il celebrato autore di Il gioco di Ender (1986), pubblica con Kathryn H. Kidd il romanzo Lovelock, che immagina la colonizzazione di nuovi mondi secondo l’ipotesi dello scienziato, e un tema simile si ritrova in Terra (1990) di David Brin.

Non è difficile capire il perché: l’ipotesi Gaia, secondo cui il pianeta Terra non è un mero sfondo delle attività biologiche ma un sistema “emergente” dall’insieme delle interazioni tra gli esseri viventi e i sotto-sistemi naturali, in grado di autoregolarsi al fine di garantire la conservazione delle condizioni adatte alla vita, ha una forte fascinazione fantascientifica che ritroviamo sublimata anche in kolossal cinematografici come Avatar (2009). Lovelock, ambientalista e visionario, non perorava l’estinzione della specie umana per dare respiro alla Terra, ma concludeva che ogni elemento della biosfera, inclusi gli esseri umani, è essenziale per il suo sviluppo, promuovendo una visione integrale dell’ecologia molto in anticipo sui tempi.

Con Novacene, il suo ultimo libro, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri quando l’autore ha appena compiuto 101 anni, s’inverte il rapporto tra James Lovelock e la fantascienza: è la fantascienza, questa volta, a ispirare Lovelock nell’elaborare la sua teoria della prossima epoca che sostituirà l’Antropocene, come ormai abbiamo imparato a definire l’epoca (forse l’era geologica) in cui viviamo, caratterizzata dalla capacità della specie umana di trasformare il pianeta, purtroppo quasi sempre in chiave distruttiva. L’idea di Lovelock non è nuova, soprattutto per il lettore di fantascienza: all’età dell’Uomo si sostituirà l’età delle macchine intelligenti, IA avanzate che costituiranno il nuovo livello dell’evoluzione dell’intelligenza. Un mondo post-singolarità già immaginato da autori come Vernon Vinge, Bruce Sterling, Williams Gibson, John C. Wright, Iain M. Banks, Charles Stross per citarne solo alcuni.

Gaia è molto diversa dalla Terra. La Terra, di per sé, è un pianeta come tanti: come Mercurio, Venere, Marte nel nostro sistema solare, o come i tanti esopianeti di dimensioni simili alla Terra scoperti in giro per la galassia, alcuni dei quali nella zona abitabile. La differenza è che nel nostro c’è vita, negli altri no. Non possiamo saperlo con certezza, naturalmente (a parte per quanto riguarda i nostri vicini di casa), ma Lovelock è pronto a scommettere che siamo soli nell’universo. Non sarebbe infatti la zona abitabile a rendere un pianeta in grado di sostenere la vita, ma il fatto di possedere vita al suo interno:

La verità è che l’ambiente terrestre si è profondamente modificato per sostenere la vita. È stata la vita a controllare il calore che proviene dal Sole. Se eliminassimo del tutto la vita dalla Terra, sarebbe impossibile renderla di nuovo abitabile perché diventerebbe di gran lunga troppo calda, scrive.

La conseguenza di questa riflessione è che probabilmente non esiste, in tutto l’universo, un posto come Gaia, e la nostra estinzione sarebbe una catastrofe per l’universo, perché “siamo l’unico mezzo con cui il cosmo è giunto all’auto-consapevolezza”. Questo sciovinismo antropocentrico oggi non è molto di moda, ma è condiviso da quegli scienziati un po’ eretici a cui Lovelock si ispira, in particolare i teorici del principio antropico forte, secondo cui l’universo possiede determinati valori proprio perché sono questi, e non altri, a rendere possibile l’esistenza della vita nell’universo: il cosmo sarebbe, un po’ come Gaia, un sistema che si autoregola per far sì che la vita nasca e si sviluppi a un certo momento della sua evoluzione (una teoria simile alla proposta della seleziona naturale cosmologica di Lee Smolin, avanzata nel suo libro La vita del cosmo, benché come replica proprio al principio antropico). Se ciò è vero, sostengono i proponenti del principio antropico (tra cui il discusso fisico teorico Frank Tipler, autore con il matematico John D. Barrow del fondamentale Il principio antropico nel 1986, che Lovelock approfondisce nel suo libro), allora l’esistenza di vita intelligente è un prerequisito essenziale dell’universo, per qualche motivo non ancora noto; una volta emersa, la vita intelligente è destinata a svilupparsi e non può estinguersi.

Lovelock sa di andare controcorrente proponendo questo tipo di approccio teleologico (se non persino teologico), ma non se ne cura:

I nuovi atei e i loro compagni di viaggio laici hanno sbagliato, a mio parere, a buttare via il bambino con l’acqua sporca, cioè la verità insieme al mito. A causa dell’antipatia che provano per la religione non sono riusciti a vedere il suo nucleo di verità. Io credo che siamo stati scelti, anche se non direttamente da Dio o da qualche altro agente singolo. Siamo una specie che è stata selezionata naturalmente, e proprio per la sua intelligenza.

Pur essendo intelligenti, stiamo consapevolmente o meno rendendo Gaia inabitabile per la specie umana, e questo è un problema, potremmo dire una contraddizione nel ragionamento di Lovelock. Ma non è l’unico. Novacene è una riflessione a briglia sciolta sul futuro di Gaia e della civiltà umana, lontano dai tentativi di elaborare una teoria coerente come l’ipotesi Gaia, per cui si può perdonare a Lovelock – soprattutto considerando i suoi 101 anni – qualche contraddizione nei suoi ragionamenti. Ma è interessante comunque approfondirli.

Secondo l’ipotesi Gaia, il riscaldamento indotto dalle specie viventi e in particolare dalla civiltà umana non è sempre negativo, ma favorisce l’emergere della vita intelligente. Si potrebbe infatti pensare che, tornando alle temperature pre-industriali, staremo tutti meglio, ma Lovelock sospetta che non è così: “Gaia ama il freddo” e il suo ambiente ideale, in cui la vita può prosperare, è quello delle grandi glaciazioni. A temperature superiore a 15°C, osserva, “la vita quasi scompare”. Se però noi riportassimo volontariamente il mondo a temperature glaciali, buona parte della biodiversità che si è adattata alle temperature attuali e che prospera insieme a noi scomparirebbe. Non è chiaro, nel ragionamento di Lovelock, perché Gaia dovrebbe accettare una modifica delle sue condizioni ambientali che limita, anziché far prosperare, la vita, a meno che non si assuma – come fa l’autore – che compito di Gaia, nella più ampia ipotesi del principio antropico, non sia piuttosto quella di far prosperare la vita intelligente. Tuttavia, è anche vero che sopra una determina temperatura anche la vita intelligente si estingue. Se la temperatura globale aumentasse fino a 47°C non riusciremmo più a sopravvivere sul lungo termine e si innescherebbe un processo irreversibile che trasformerebbe la Terra in un pianeta simile a Venere. Secondo l’ipotesi Gaia, il pianeta dovrebbe intervenire per impedire questo scenario. Ma secondo Lovelock Gaia sta perdendo colpi: in passato poteva raffreddare il pianeta attraverso grandi eruzioni di supervulcani; ma, invecchiando, i suoi meccanismi diventano meno efficienti e Gaia si fa più vulnerabile, esattamente come un essere umano man mano che invecchia.

È qui che entra in gioco il livello successivo dell’evoluzione. Affinché l’obiettivo primario che consegue dal principio antropico, ossia garantire alla vita intelligente di continuare a prosperare, resti perseguibile, dobbiamo accelerare quel processo che trasforma la materia in informazione. Riprendendo le tesi di Barrow e Tipler sul principio antropico, secondo cui in ultima essenza la vita è informazione (una teoria proposta per primo da Erwin Schrödinger e rilanciata successivamente da John A. Wheeler con il celebre motto it from bit), Lovelock sostiene che la vita intelligente ha come scopo il processamento dell’informazione dell’universo. Ma esistono modi più efficienti di processare l’informazione dei cervelli umani, come i computer sembrano suggerire. Le macchine potrebbero essere un milione di volte più veloci, considerando che la velocità massima a cui può viaggiare un segnale lungo un conduttore elettrico è di 30 centimetri al nanosecondo contro i 30 centimetri per millisecondo che impiega un segnale lungo un nervo, cioè un milione di volte più lento.

Qui Lovelock sembra dimenticare che la velocità non è tutto, e che un cervello umano ha una capacità di elaborazione dell’informazione enormemente superiore a quella di un qualsiasi computer, se si comparano le quantità di energia richieste: solo molto recentemente un supercomputer è riuscito a raggiungere, per appena un secondo, l’efficienza di un cervello umano. Comunque, non ha dubbi: l’evoluzione dell’intelligenza artificiale ci porterà ben presto dall’Antropocene al Novacene, l’era in cui le nuove IA progetteranno sé stesse aumentando in modo significativo la loro efficienza. È il vecchio sogno della “singolarità tecnologica” caro alla fantascienza, con la differenza che i cyborg del futuro giocheranno, nella teoria di Gaia, un ruolo determinante. Non ci sarà nessuna fuga nell’infosfera, come hanno immaginato autori come Greg Egan: l’intelligenza non si ritirerà dal mondo reale per vivere esclusivamente all’interno di mondo virtuali. Le IA del Novacene assumeranno il controllo di Gaia e garantiranno la sua sostenibilità sul lungo periodo: saranno loro a risolvere il nostro problema con i cambiamenti climatici. Lovelock cerca anche di immaginarsi l’aspetto di questi nuovi abitanti di Gaia: non saranno come noi, ma probabilmente simili a sfere; non useranno un linguaggio, ma qualche forma di trasmissione veloce dell’informazione, simile alla telepatia; potranno piegare ai loro scopi il dominio della meccanica quantistica, riuscendo magari a teletrasportarsi a distanza.

Ma una specie così diversa da quelle esistenti su Gaia accetterebbe dei parametri che favoriscono la vita biologica ma sicuramente costituiscono dei limiti alla vita inorganica? Qui Lovelock cade in palese contraddizione. Da un lato ci tiene a respingere gli scenari di Matrix e in generale dei sostenitori del rischio esistenziale connesso all’IA, affermando che i cyborg del Novacene accetteranno l’ipotesi Gaia e comprenderanno che per la loro stessa sopravvivenza è necessaria un’armonia tra le specie viventi che garantisca il mantenimento della vita sulla Terra. Dall’altro, poco più oltre conviene sul fatto che “quando il Novacene sarà maturo e impegnato a regolare le condizioni chimiche e fisiche della Terra perché i cyborg possano abitarvi, Gaia indosserà un nuovo manto inorganico”. Ciò significa un’estinzione di massa di tutta la vita biologica, ma per Lovelock poco importa:

Proprio come non piangiamo per la scomparsa delle specie nostre antenate, allo stesso modo i cyborg non saranno distrutti dal dolore per la scomparsa degli esseri umani.

Ciò è fuor di dubbio. La vera domanda è: e noi? Sapendo che il nostro destino nel Novacene sarà l’estinzione, dovremmo accettarla fatalisticamente? E le altre specie viventi di Gaia? La svolta di Lovelock a favore della vita inorganica è difficilmente conciliabile con le sue tesi precedenti e soprattutto con i principi ambientalisti, che non a caso lo scienziato critica in più parti dell’opera, giudicandoli troppo ideologici e poco orientati al progresso della civiltà. Senza le macchine, sembra suggerire, non ci salveremo; ma d’altronde, anche con le macchine non ci salveremo. Certo, la vita intelligente proseguirà e secondo Lovelock si espanderà tra le stelle, come sosteneva John von Neumann con la teoria delle macchine autoreplicanti in grado di colonizzare nuovi mondi. “Esiste una remota possibilità che i cyborg, lasciati liberi di evolvere, possano alla fine portare a termine lo scopo dell’universo, qualunque esso sia”, ragiona Lovelock. “Forse l’obiettivo finale della vita intelligente è la trasformazione del cosmo in informazione”. Uno scenario affascinante in cui però non avremo alcun ruolo. “Non dobbiamo rattristarci per questo”, ci esorta l’autore. “Abbiamo fatto la nostra parte”.