Aulard restò zitto. — So che lei non ha parlato in dettaglio della sua ricerca con nessuno —, riprese Vincentini — per cui non mi meraviglio se sarà rimasto sorpreso da quello che so. — Quindi i Sette… —, borbottò lo studioso. — Sì, erano sette ed eravamo noi. Mi congratulo per la penetrante intuizione —. Restò in silenzio per un momento. — L’intuizione è il nodo centrale. Se vuole davvero capire questa storia, deve capire l’intuizione. Che cosa sa sull’argomento?. Aulard temette di non aver capito bene la domanda. — Sull’intuizione? —, ripeté. L’altro annuì. — Se non sbaglio, ne ha parlato nella sua biografia su Sir Roger Penrose. Ne ero rimasto molto colpito. — Ah, ma certo. L’intuizione matematica… Penrose sosteneva che ciò che distingue il pensiero umano da quello di una macchina è la mancanza di intuizione di quest’ultima.

— Sì, Penrose aveva visto giusto quando postulava l’impossibilità di realizzare un’intelligenza artificiale —, commentò Vincentini con voce fioca. — Ma Penrose non parlò dell’argomento solo in questi termini. Fece anche alcuni esempi interessanti. Per esempio, uno riguardava una sua teoria sui buchi neri.

Aulard alzò le sopracciglia: — Lei sembra molto più preparato di me, professore —, commentò.

— Sì, ha ragione. In uno dei suoi libri, Penrose raccontava di un problema che ora non ricordo sulla natura dei buchi neri, intorno al quale stava girando da tempo senza approdare a nulla. Fa una chiacchierata con dei colleghi, torna in ufficio e si sente pervadere da un senso di esaltazione. Cerca di fare mente locale e ricostruire la sequenza di pensiero che aveva seguito, capisce di aver trovato improvvisamente l’idea giusta, e sa che è giusta anche senza aver modo di provarla sul momento. Gli servirebbero ore per descrivere la teoria e provarla, ma lui sa che è giusta.

— Lo sa, come ha detto lei, mio caro amico —. Il viso di Vincentini sembrò riprendere colore. — Come? Perché ha avuto un’intuizione, apparentemente slegata dal contesto che lo ha portato a quell’idea.

E lei, professor Aulard, come è arrivato a scoprire la storia di noi sette?. La domanda giunse a bruciapelo mentre lo studioso stava ancora riflettendo su Penrose. Aulard alzò lo sguardo su Vincentini. — Ricerche —, disse. Gli raccontò com’era andata. Lo scienziato lo ascoltò con attenzione, ma alla fine sembrò poco soddisfatto.

— Lei non ha ancora avuto la giusta intuizione —, sentenziò.

— Bè, se si riferisce al fatto che non ho ancora capito cosa lega le vostre esperienze e i vostri… destini, chiamiamoli così, sì, in effetti non ho ancora avuto la giusta intuizione —. Era un po’ seccato. Perché la stava facendo così lunga?

— Allora cercherò di accennarle qualcosa —, riprese il vecchio, calmo. — Tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, improvvisamente, un mucchio di giovanotti molto in gamba si diedero a studiare la fisica e vennero come illuminati da idee straordinarie. Ci sono diversi aneddoti sull’argomento, che riguardano nomi famosissimi. Camminavano per strada e venivano folgorati da un’intuizione; si svegliavano nel cuore della notte con la soluzione a un problema matematico fino ad allora irrisolvibile; una volta uno di loro, tant’era assorto, capitombolò per strada, e a un povero passante che voleva dargli una mano sbottò: “Non vede che sto pensando?”. In pochi anni riuscirono a violare il nucleo dell’atomo e la fisica dell’infinitamente piccolo non ebbe più segreti per la maggior parte di loro. Poi in Europa calarono le tenebre dei fascismi e quei giovanotti, alcuni non più tanto giovani, dovettero emigrare: ma si ritrovarono dall’altra parte dell’Atlantico e dopo un po’ il frutto del loro lavoro portò alla realizzazione della bomba atomica. Aulard annuì.

— Già —, commentò. — Ma come l’ha raccontata lei, sembra che tutto sia avvenuto quasi per caso.

— Ah, no! —, esclamò Vincentini. — Nessuna casualità. Causalità. Perché quelle scoperte sorprendenti vennero realizzate nel giro di così pochi anni? Lei, che è uno storico della scienza, mi risponderebbe citando gli stretti rapporti tra le comunità scientifiche dell’epoca, l’emergere di problemi la cui soluzione proprio in quegli anni avrebbe spinto a nuove scoperte, e così via. Io non lo credo. Credo che all’epoca il mondo fosse maturo per apprendere quelle cose. E se lo fu, è perché la minaccia che pendeva su di loro, quella della barbarie nazista, era troppo grande perché l’umanità fosse lasciata inerme ad affrontarla.

— Lei sta sostenendo l’esistenza di un proposito cosmico… —, obiettò Aulard. — Che quelle nozioni vennero scoperte perché sarebbero tornate utili nella costruzione della bomba, senza la quale forse Hitler avrebbe vinto?

— Enrico Fermi, il mio illustre connazionale, che ebbe la ventura di trasferirsi in America, e Heisenberg, che invece in quegli anni restò in Germania, la pensavano come me. Lo dissero esplicitamente: “Dio volle renderci ciechi di fronte alle implicazioni della fissione nucleare”. Se non lo avesse fatto, i fascismi avrebbero avuto la meglio….