Aulard si strinse nelle spalle. — Da uomo di scienza… —, cominciò. — Ah, caro mio, ma anche io sono un uomo di scienza. Anzi, se mi permette lo sono più di lei. Ma adesso che ha afferrato l’esempio, capirà meglio il seguito.  

4

 

Da un cassetto della scrivania, Bartolomeo Vincentini trasse un vecchio ritaglio di giornale. Anche se i quotidiani stampati erano ormai scomparsi, Aulard era solito servirsene per le sue ricerche e fu assai stupito di riconoscerlo.

— Questa è un’intervista a Nadia Fernandes de Melo —, disse. Vicentini, dal canto suo, non si stupì.

— Sì, esatto. Una delle poche, ma anche la più importante. Ero già un fisico affermato quando mi capitò di leggerla. Fu allora che iniziò la storia. Forse non ricorderà tutta l’intervista; ma a un tratto lei disse di aver avuto un’intuizione “come in sogno, come se venisse da un’altra dimensione”. Capii esattamente a cosa si riferiva. Perciò, la contattai. Fummo entrambi stupiti dall’apprendere che le nostre esperienze intuitive, chiamiamole così, coincidevano: Nadia non aveva usato quelle parole con disinvoltura. Parlava alla lettera. Aulard si mosse a disagio sulla sedia che cominciava a diventargli scomoda.

— Su cosa? Sul sogno? Sull’altra dimensione? —, chiese.

— Esatto. E da bravi scienziati ci chiedemmo il perché di quella coincidenza. Forse anche altre persone avevano avute intuizioni fondamentali del tutto improvvisamente, come in sogno. Facemmo ricerche senza approdare a niente. Un mattino, però, scoprimmo l’impensabile: avevamo fatto lo stesso sogno. E capitò lo stesso il giorno dopo. Capimmo che c’era più di una semplice coincidenza in tutto ciò, e decidemmo di ‘allenarci’ per sognare un sogno identico, deciso prima di iniziarlo. Scoprimmo così di poter accedere a quella dimensione, che chiamammo iperuranio. Detto così le sembrerà il delirio di un pazzo, ma la realtà sperimentale è diversa dalla teoria. Il sogno che facemmo insieme ci permise di scoprire che in effetti esistevano davvero altre persone, altri scienziati come noi. Riuscimmo a contattarli a uno a uno, e man mano a creare una rete. Scoprimmo infine che man mano che questa rete di cervelli si estendeva, la capacità di addentrarci nell’iperuranio si perfezionava. All’inizio non vedevamo che ombre. Poi il sogno iniziò a diventare più stabile, anche più malleabile. Quando ci riunimmo per la prima volta tutti e sette, capimmo così che non ce n’erano altri. Eravamo noi i prescelti, solo noi. Ma finita quella ricerca incredibile, ne iniziò un’altra ancora più difficile. Dovevamo capire perché.

— Perché proprio voi? —, domandò Aulard.

— No, quella domanda non ci sfiorò mai —, rispose Vincentini. — Capimmo fin da subito di essere degli strumenti. Ma di cosa? O di chi? Il perché di cui le dicevo era più filosofico. Perché avevamo avute le stesse esperienze intuitive, permettendo alla scienza mondiale di fare in pochi anni un passo da gigante che altrimenti avrebbe richiesto decenni, se non secoli? Fummo subito convinti che ci fosse dietro un disegno.

Aulard cominciava a capire. — O un proposito cosmico —, puntualizzò. — Come i fisici nucleari degli anni ’30, pensavate anche voi di essere stati come “chiamati” ad assolvere un compito non ancora chiaro, come la costruzione della bomba.

— Il mondo era in pace e nessuna delle nostre scoperte, a quanto ci sembrava, poteva essere usata per scopi bellici —, rispose il vecchio. — Cominciammo a incontrarci diverse volte l’anno per discutere, perché se anche potevamo sentirci quotidianamente da varie parti del mondo, sapevamo che la vicinanza ci aiutava a ‘mettere in fase’ i nostri cervelli.

— Cercavate la soluzione accedendo… all’iperuranio? —, chiese Aulard, soffocando la sua crescente perplessità.

— Anche. Ma era come se l’iperuranio ci avesse già dato tutto. Le idee che vi erano contenute e che potevano servirci erano già state svelate. Cercammo di spremerlo come un limone, ma l’iperuranio non ci fornì nessun’altra intuizione. Come saprà, dopo di allora nessuno di noi sette realizzò grandi cose. Tutte le nostre energie intellettuali si persero in gigantesche elucubrazioni di carattere gnoseologico. Ci improvvisammo filosofi, teologi, epistemologi. Ognuno aveva la propria teoria. Samuel Obasanjo, ad esempio, era fermamente convinto che le applicazioni pratiche delle nostre scoperte ci avrebbero permesso di costruire una macchina per comunicare con un’avanzata civiltà extraterrestre, e che ci fossero gli alieni, appunto, dietro le nostre capacità mentali sovrannaturali. Ma il ragionamento difettava di logica: se erano stati capaci di donarci le intuizioni teoriche, perché gli E.T. non ci avevano fornito direttamente gli schemi tecnici? Karl Schulte, dal canto suo, restava convinto che le nostre idee preludessero alla scoperta di una fonte d’energia finale, inesauribile e pulita. Ma quello era il suo sogno, e ne era ossessionato. Come Adrian Smith, che invece era un convinto assertore dell’idea che ci dovessimo rivelare al mondo come degli eletti, per assumere la guida del’umanità. Può immaginare come combattei quell’idea, ma rimasi profondamente scosso quando appresi del suicidio di Adrian. Fu il primo ad allontanarsi da noi. Seppi che si era unito a gruppi neonazisti là, in America, ma ero certo che non avrebbe mai fatto del male a una mosca. Infatti, alla fine preferì risolvere il problema alla radice, uccidendosi.