Nel 1901 Herbert George Wells, già autore di romanzi di grande successo come La macchina del tempo (1895), L’isola del dottor Moreau (1896) e La guerra dei mondi (1896), propose nel suo saggio Anticipations che gli sforzi degli uomini di scienza occidentali (perché allora erano, ovviamente, pressoché tutti uomini e bianchi) dovessero concentrarsi sulla capacità di predire “la forma delle cose a venire”. Rilanciò questo obiettivo in un discorso tenuto l’anno successivo alla Royal Institution: «La conoscenza induttiva di un gran numero di cose nel futuro sta diventando una possibilità dell’essere umano». Nell’epoca del positivismo trionfante che aveva accompagnato il passaggio di secolo, nel cuore dell’Impero più vasto e potente del mondo, queste parole non potevano non esercitare una profonda impressione. Alcuni se ne inorgoglirono: J.B.S. Haldane e Julian Huxley vaticinarono l’ascesa di una nuova umanità, che grazie al progresso scientifico si sarebbe presto affrancata dalla casualità dell’evoluzione, dalle insidie del parto, dall’invecchiamento e persino dalla morte. Altri ne furono spaventati: Aldous Huxley tratteggiò le ombre di questo Brave New World che sembrava sorgere all’inizio del secolo, immaginando un futuro distopico in cui il darwinismo sociale e il freudismo avrebbero contributo a creare un regime totalitario perfetto, dove gli esseri umani vengono prodotti in serie negli uteri artificiali e resi docili e felici dalla somministrazione di droghe; C.S. Lewis paventò i rischi di un’empia alleanza tra tecnica e politica di cui intuì gli esiti nel grande esperimento nazionalsocialista.

Già nei primi decenni del Novecento, in ogni caso, avremmo fatto bene a dare ascolto alla capacità della fantascienza di immaginare il futuro. Se il sogno di Wells non si è avverato, nonostante i potenti richiami della psicostoria inventata da Isaac Asimov nei primi anni Quaranta, ciò non toglie che la fantascienza si rivelò profetica fin da allora, tanto nell’immaginare fin dove potesse spingersi l’innovazione tecnologica, quanto nel metterci in guardia dalle derive dell’ideologia del progresso senza freni. È storia nota che furono gli scrittori di fantascienza a intuire per primi che l’energia della fissione atomica potesse essere usata per finalità militari: Wells ne descrisse gli effetti ne La liberazione del mondo (1914), E.E. Doc Smith immaginò astronavi a propulsione nucleare e un racconto pubblicato sulla rivista Astounding nel 1944, a firma di Cleve Cartmill, spaventò talmente i servizi segreti per una possibile fuga di notizie riguardo il progetto Manhattan che l’autore e l’editore della rivista, John W. Campbell, passarono un brutto quarto d’ora.

La fantascienza “futuristica” era, in un certo senso, la diretta discendente della letteratura utopica del Settecento e dell’Ottocento: come tale, il suo obiettivo era quello di costruire racconti ambientati nel futuro per parlare, in realtà, del presente. Esattamente come ne L’anno 2440 di Mercier, dove l’autore – che scrive nel 1771 – si risveglia nella Parigi del 2440, raccontandone le straordinarie meraviglie tecnologiche ma soprattutto i cambiamenti dei costumi sociali, per criticare quelli del suo presente, così in A noi vivi Robert Heinlein, nel 1939, raccontava la storia di un tenente di marina che, dopo un incidente, si risveglia nel 2086, restando soprattutto colpito dal sistema politico-economico libertario dove il denaro non è controllato dalle banche e dove il lavoro è volontario, per promuovere le sue personali opinioni politiche sull’America del keynesismo. In Paria dei cieli (1950), Isaac Asimov proietta il sarto in pensione Robert Schwartz nella New York di un remoto futuro, in cui la Terra è un pianeta reietto alla periferia dell’Impero galattico, covo di odii nei confronti dei padroni interstellari e dove una sorta di ierocrazia progetta una lotta di liberazione (più che usare questo scenario con intenti polemici nei confronti del presente, Asimov prendeva a modello la Palestina del I secolo).

Ma l’escamotage può servire anche a tratteggiare futuri da incubo, come del resto già aveva fatto per primo H.G Wells nel suo La macchina del tempo. Stanislaw Lem, ne Il congresso di futurologia (1971), fa scongelare Ijon Tichy in un futuro in cui la diffusione di sostanze allucinogene nell’aria consente alle persone di vivere in una realtà fittizia, che nasconde un mondo da incubo dove la gente vive e muore ai margini delle strade e tutti corrono di gran carriera fino a farsi scoppiare il cuore in petto per tenersi al passo in una società cronofagica. Siamo già, comunque, in un’epoca lontana dal primo Novecento: l’ottimismo tecno-utopico ha subito un primo colpo nella Grande Guerra ed è crollato di schianto dopo il secondo conflitto mondiale, lasciando agli autori di fantascienza il compito sempre più impegnativo di sentinelle in allerta per mettere in guardia il mondo da quel che il futuro può riservarci, a partire dall’incubo di un olocausto nucleare, scenario tipico della science-fiction di quegli anni.

Il dibattito sulla crescente presa della distopia sulla fantascienza futuristica è tornato in auge in anni recenti. Aperto da Neal Stephenson – che pure era stato tra le voci più notevoli della prima stagione del cyberpunk – con il suo Hieroglyph, operazione editoriale promossa dal Centre for Science and Imagination dell’Arizona State University per riscoprire come la fantascienza possa aiutare a pensare agli sviluppi futuri della tecnologia in modo ottimistico, è poi sfociato nel movimento Solarpunk, che di recente sta tentando di riprendere dal cyberpunk degli anni Ottanta la critica politica all’uso delle tecnologie da parte dei poteri egemonici, senza però cedere alle stesse tentazioni nichiliste e catastrofiste, ma dimostrando invece che, se le nuove tecnologie sono messe al servizio di progetti democratici, inclusivi e partecipativi, allora il futuro può davvero tornare a essere un luogo di speranze e utopie.

«Troppo spesso si preferisce additare soltanto i segnali negativi, le distopie quasi realizzate, mentre si trascurano quelli positivi», scriveva per esempio Francesco Verso nell’introduzione del volume Segnali dal futuro (2016). «E infatti una parte consistente della narrativa di genere fantastico e fantascientifico, la quale negli ultimi anni ha preso il nome di narrativa di speculazione per la sua capacità di elaborare scenari molto dettagliati, ha smesso di crogiolarsi sul mito dell’apocalisse, sull’autocommiserazione fatalistica e su un certo menefreghismo nichilistico». Sulla scia di queste considerazioni, nella postfazione all’antologia Solarpunk: come ho imparato ad amare il futuro (2020) Verso salutava una nuova generazione di scrittori che non intende arrendersi all’ineluttabile: «In un periodo così turbolento – in cui la narrazione globale è ostinatamente incentrata su decadenza, cinismo e distopia – c’è chi si impegna a delineare le fattezze di un “mondo altro”».

Dal punto di vista di chi si occupa di futures studies, questa polarizzazione è in realtà un falso problema. Se è facile distinguere un’opera di fantascienza utopica o comunque positiva (pensiamo all’universo di Star Trek, dove la tensione è sempre presente ma il futuro della civiltà umana è decisamente buono, minacce dei Borg a parte) da un’opera distopica o in generale negativa (come può essere un film iconico quale Blade Runner), più difficile è dire se un discorso intorno al futuro sia utopico o distopico in partenza. Se infatti il compito di chi si occupa di studiare i futuri possibili è quello non di prevedere, ma di anticipare, nell’ambito dell’anticipazione – termine che aveva usato per primo proprio Wells – futuri preferibili ed evitabili stanno essenzialmente sullo stesso piano, nel senso che non sono necessariamente estrapolazioni del presente ma possibilità che spetta a noi realizzare o impedire. Quello che davvero conta, nei futures studies, non è la capacità di prevedere cosa accadrà nei prossimi dieci anni, ma quella di immaginare in anticipo le conseguenze di forze attive nel presente, come per esempio mode culturali emergenti o tecnologie appena lanciate sul mercato. È qui che la fantascienza torna a giocare un ruolo determinante, per il futurologo: perché immaginare è un esercizio difficile e chi lo sa fare meglio di chiunque altro è proprio l’autore di fantascienza.

William Gibson
William Gibson

«Non predico futuri. Genero scenari»: così chiariva William Gibson a chi gli chiedeva perché le sue visioni del futuro tratteggiate nella Trilogia dello Sprawl fossero così inquietantemente simili al presente. Generare scenari, continuava Gibson, non significa dire cosa succederà, ma cosa potrebbe succedere: gli scenari sono tanti, esattamente come i futuri. La loro realizzazione o il loro evitamento è compito di coloro che operano nel presente. Ha scritto giustamente Francesco Verso: «Poiché la fantascienza abita il futuro ne conosce i pregi (fatti di tendenze, potenzialità e speranze) e i difetti (le congetture palesemente sballate, le velleità profetiche alla “sindrome di Cassandra” e l’allarmistico “al lupo al lupo” su cui inciampano molte narrazioni)». Ma pregi e difetti, utopie e distopie, si confondono nel lavoro della generazione di scenari, perché il peggior rischio di un esercizio di scenario è quello di lasciare fuori il worst case scenario, il peggior scenario possibile.

Fa notizia che in Francia, in questi mesi, il governo abbia messo su un “Red Team” di scrittori di fantascienza per immaginare gli scenari al 2030 e oltre riguardo guerre cibernetiche, nazioni pirata, soldati robot, computer quantistici, nuove risorse strategiche e conseguenze del riscaldamento globale. Per la verità anche l’Italia ha spesso fatto ricorso all’immaginazione per elaborare scenari in ambito securitario (è il caso degli studi promossi dal Centro Alti Studi per la Difesa). Ma oggi più che mai abbiamo bisogno di usare la capacità immaginativa della fantascienza per non lasciarci travolgere da nuovi eventi X. Pensiamo ad Asimov. Nel suo celebre ciclo delle Fondazioni, la psicostoria è la scienza con cui il matematico Hari Seldon e la sua squadra sono riusciti a prevedere i grandi avvenimenti galattici mille anni nel futuro, elaborando un Piano che ha per obiettivo la costruzione di un nuovo impero apportatore di pace, civiltà e progresso, per la cui realizzazione sono designate due organizzazioni, la Prima Fondazione e la Seconda Fondazione. Quest’ultima – di natura segreta – deve monitorare gli sforzi della prima per assicurarsi che il Piano non subisca rallentamenti né deviazioni. Ma quando, a un certo punto, si presenta sulla scena il Mulo, misterioso leader politico, in grado di conquistare con estrema facilità mondi su mondi fino ad assoggettare la stessa Prima Fondazione, diventa chiaro agli uomini della Seconda Fondazione che qualcosa è andato storto: la psicostoria non ha previsto questa possibilità e il Piano è deragliato.

Com’è stato possibile? La previsione del futuro (foresight), basata sull’estrapolazione delle dinamiche del presente, non riesce quasi mai a tenere dentro l’aspetto dell’improbabile o dell’implausibile. Il Piano Seldon ne è una fantasiosa ma efficace dimostrazione: a noi non serve affatto una scienza esatta della previsione, ma un modo di anticipare quelle incognite in grado di stravolgere completamente gli scenari previsti. Nessuno aveva previsto l’arrivo del Mulo e le due Fondazioni dovranno penare parecchio per riportare il Piano Seldon nei giusti binari, con risultati che diverranno chiari negli ultimi romanzi della serie di Asimov, quando apparirà evidente che la stessa psicostoria si basa su un assunto errato, il desiderio di un “eterno ritorno dell’uguale”. Ciò che invece la storia ci insegna è che, se è vero che molte vicende sono la naturale evoluzione di tendenze prevedibili e persino in parte deterministiche, molte altre sono il frutto di elementi imponderabili, svolte improvvise e sviluppi imprevedibili.

Per loro natura, questi “eventi X” o “cigni neri” esulano dalla nostra capacità di previsione. Ma non necessariamente dalla nostra capacità di immaginazione. Se gli scrittori di fantascienza sono stati in grado di immaginare prima di altri la bomba atomica, ci sarà un perché. Se sono riusciti a immaginare con largo anticipo sui tempi gli hacker e i virus informatici, i cambiamenti climatici, le meraviglie di Internet, l’automazione del lavoro e persino le pandemie virali, forse è giunto il momento di prestarvi più ascolto. Esistono già metodi rodati nell’ambito dei futures studies che si avvalgono della capacità immaginativa della fantascienza. È il caso, per esempio, dello Science Fiction Prototyping sviluppato da Brian David Johnson alla Intel: prima del lancio di un nuovo prodotto tecnologico, gli sviluppatori si incontrano con autori di fantascienza e persone comuni e lavorano all’elaborazione di racconti attraverso cui immaginare le potenziali conseguenze sul lungo termine – positive e negative – dell’introduzione della nuova tecnologia nella società. Potrà essere usata per usi impropri? Potrà apportare benefici in modo diverso da quanto inizialmente progettato? Il design fiction, concetto introdotto dallo scrittore di fantascienza Bruce Sterling, è un metodo di immaginazione del futuro attraverso lo sviluppo di prototipi di oggetti o servizi futuristici.

C’è, senza dubbio, un’inclinazione alla distopia nei risultati di queste metodologie, perché inesorabilmente siamo più portati a immaginare gli effetti collaterali di un’innovazione piuttosto che quelli benefici. Ma questo non è necessariamente un male: per il futurologo, prevenire è sempre meglio che intervenire ex post. La nuova tendenza del solarpunk potrebbe essere messa al servizio di queste metodologie per compensare la tendenza alla distopia e permetterci di scorgere meglio non solo gli scenari peggiori, ma anche modi innovativi di usare le tecnologie per la liberazione sociale. Michele Bellone, in un recente articolo su Le Scienze (novembre 2020), ha parlato proprio di questo: «Una continua corsa all’innovazione fra realtà e immaginazione che ha bisogno degli slanci creativi di fantatecnologi e fantasociologi, delle conoscenze degli scienziati e delle riflessioni dei futurologi». Di questo abbiamo bisogno oggi più che mai.