gli aneddoti di Vittorio Curtoni

Da piccolo sognava di vivere di fantascienza. Purtroppo il suo sogno si è avverato.

Memories of green

Non sappiamo se Delos sia entrato nella storia della fantascienza italiana, ma sicuramente la storia della fantascienza italiana è entrata in Delos. Vittorio Curtoni, già direttore delle mitiche riviste Robot e Aliens - e comunque un bel po' mitico già di suo - ha accettato di portare sulle nostre pagine una collezione di gustosi aneddoti del fandom e dell'editoria italiana. Ah, per sua volontà, il sottotitolo di questa rubrica è "i farneticanti ricordi del vecchio vic". Almeno sapete cosa aspettarvi...

Da bambino, io leggevo Urania. Perso nel paesello del quale ho già parlato anche troppe volte, Morfasso, e più tardi in un altro paese che però ha sempre avuto l'orgoglio di considerarsi una città, vale a dire Bobbio (dove oggi dimora, quando può, uno dei più interessanti e intelligenti autori della fantascienza italiana, Carlo Formenti), leggevo Urania. Ma non solo.

A Morfasso non esistevano edicole. Non so se arrivassero i quotidiani, francamente non lo ricordo, e io ero troppo piccolo per nutrire interesse per la cosa; so di certo che di edicole non c'era traccia. Urania entrava quindi sporadicamente in casa mia, le volte che mio padre, segretario comunale del paese, si imbarcava nell'avventuroso viaggio per la grande città, Piacenza.

Detto oggi può anche fare ridere, ma nei Cinquanta era sul serio un'impresa superare quei quaranta/cinquanta chilometri su strade bianche, con continue curve da voltastomaco, viaggiando su corriere dall'assetto assai incerto. Che tempi. Be', mio padre tornava la sera da Piacenza e portava le cose buone che a Morfasso non si trovavano: la maionese nei tubetti (l'indimenticabile maionese Orco, un sapore di quelli che oggi non esistono più), l'Emmenthal svizzero, il prosciutto cotto (il crudo l'ho conosciuto quando già ero adolescente, a casa di una zia), le patatine fritte. Leccornie rare che finivano molto in fretta. E poi portava Urania, leccornia altrettanto rara ma a degustazione più lenta.

E io partivo per i miei viaggi stratosferici che ho già raccontato mesi fa, sicché non starò a ripetermi.

Ovviamente, questa situazione precaria comportava il fatto di non poter possedere tutti i numeri della bramata pubblicazione, perché lo spirito avventuroso di mio padre aveva i suoi limiti: appena in possesso del nuovo fascicolo, correvo subito a controllare l'indice degli ultimi numeri pubblicati, e mi accorgevo dolorosamente di quanto avessi perso. Titoli mirabolanti che mai più in vita mia avrei avuto occasione di leggere, o così pensavo allora. La cosa era straziante, ma come tutte le grandi torture (Kafka docet) aveva i suoi risvolti di soddisfazione masochista: la comparizione del nuovo numero era un miracolo imprevedibile, un evento affidato alla volontà del fato e degli dèi, e il suo avverarsi comportava un tasso di gioia che certo la perfetta regolarità degli acquisti non mi avrebbe dato. Non so perché mio padre non abbia mai pensato di abbonarsi a Urania; non lo ha fatto, e basta, anche se aveva abbonato me al Corriere dei piccoli. Forse capiva molto bene le gioie del sadismo autoinflitto e non desiderava privarmene.

Arrivare a Bobbio, in tutt'altra vallata del piacentino, dove sbarcai nei primi anni Sessanta, in coincidenza dell'inizio della mia carriera di studente delle medie inferiori, fu davvero una grande emozione: lì un'edicola esisteva (oggi ce ne sono tre o quattro), e potevo comperarmi Urania ogni volta che usciva! Felicità indicibile. Inoltre, esisteva anche un cinematografo che proiettava due film a settimana, uno il mercoledì e il giovedì, l'altro il sabato e la domenica. La mattina dei giorni fatidici, prima di andare a scuola, noialtri ragazzini facevamo un salto in centro a guardare i deliziosi cartelloni in legno, precariamente appoggiati a un muro (guarda un po', esattamente di fronte all'appartamento attuale di Formenti), ai quali erano affisse le locandine dei film. E tripudio!, il gestore del cinema sembrava avere una particolare propensione per fantascienza e horror: almeno una volta al mese mi era concesso gustarmi classici del calibro di Il mostro dell'astronave, Attacco alla Terra, La figlia del dottor Jeckyll (in quanti lo hanno visto, eh?), L'ultima spiaggia, La maschera di cera (che oltre tutto era vietato ai minori di 16 anni, ma mio padre, mosso a compassione, riuscì a farmi entrare. Semplicemente incredibile), eccetera. Che anni intrisi di goduria del tutto inesprimibile. Che anni pastosi, sodi, come direbbe la buonanima di Luciano Bianciardi. In vita mia, di emozioni uniche ne ho provate tante, come poi succede a tutti (che so, la prima volta che fai l'amore, la prima volta che fumi una sigaretta, la prima volta che puoi offrire una pizza alla ragazza dei tuoi sogni), ma il bello di quelle era che, pur essendo tutte uniche, si ripetevano con la tranquillizzante regolarità dei grandi eventi celesti. Pardon, celestiali. Le parole non possono dire quel che provavo.

Fu a Bobbio che mi si spalancarono le porte del secondo grande amore letterario dei miei cinquant'anni, ovvero il fantastico, in particolare nella sua accezione di horror. Conobbi due ragazzi, uno un po' più giovane di me (Maurizio), l'altro un po' più stagionato (Giancarlo), che condividevano i miei gusti. Si andava assieme al cinema, e assieme si leggeva. Giancarlo fu colui che mi fece incontrare per la prima volta i racconti fantastici di Arthur Conan Doyle e soprattutto quelli di Edgar Allan Poe, che possedeva in un incantevole cofanetto della B.U.R. Fu un'epifania, un satori. Poe mi metteva una paura del diavolo (ehi, avrò avuto dodici anni o giù di lì), ma esercitava un fascino ipnotico al quale proprio non sapevo rinunciare: la sera, a letto, mi cacciavo sotto le lenzuola, cominciando sin dai primi minuti a respirare con l'affanno e a sudare come tre maiali; accendevo una torcia elettrica mignon che possedevo, e in quella precaria luce, prossimo al soffocamento (ma almeno gli occhi funzionavano bene, a differenza di oggi), distillavo gli incubi del grande Edgar Allan, un mio idolo se mai ne ho avuto uno. Poi passavo tutta la notte sotto le lenzuola, da bravo demente, assillato dal terrore di essere ghermito dal braccio di Morella, di udire la risata inumana di Berenice; ma cavoli, quanto era bello! Paure come quelle non le ho mai più vissute. Ce ne fossero ancora. Sarei pronto a pagare per riprovarle. I germi masochisti della mia infanzia hanno lasciato un segno indelebile.

Urania era sovvenzionata da mio padre, quindi su quel fronte non c'erano problemi. Foraggiarsi di horror era tutto un altro paio di maniche. Noi tre formammo una cooperativa di lettura: con religioso furore, tutti i mesi risparmiavamo sulle nostre paghette, mettevamo in comune la cifra necessaria, e con quella ci comperavamo principalmente due mensili di romanzi, I racconti di Dracula e K.K.K. I classici dell'orrore; quando capitava, anche le cose più esoteriche che vedevamo spuntare dietro la vetrina dell'edicola. Se avevamo i soldi. Da quel che ricordo, non siamo mai riusciti a metterci d'accordo su turni prefissati, per cui ogni volta ci si metteva a litigare per stabilire l'ordine di lettura del nuovo oggetto del desiderio; e, di solito, il figlio di puttana (me compreso, s'intende) che aveva avuto il privilegio di leggere per primo faceva di tutto per rovinare la sorpresa agli altri due, raccontando la trama, enunciando indizi più o meno enigmatici che poi cascavano come tegole sulla testa del secondo e terzo lettore. Sadismo puro, forse per controbilanciare l'intrinseco masochismo della paura generata da quei testi.

Non posseggo più nemmeno uno dei Dracula o dei K.K.K. di quei fulgidi anni, che temo siano rimasti nelle avide mani dei miei soci quando, ormai alle superiori, dovetti migrare anche da Bobbio; ma mi venisse un accidente se alcuni nomi di quegli autori non mi si sono stampati a lettere di fuoco nel cervello. Ne ricordo in particolare due, Frank Gregorius e Harry Small, che come tutti gli altri, salvo rare eccezioni, erano solo pseudonimi di italiani che tiravano a campare scrivendo quella robaccia; però noi eravamo ignari del retroscena, e per noi quelli erano testi sacri, le innumerevoli Bibbie del nostro primo, incerto, approssimativo, approccio al fantastico. La beata ingenuità della fanciullezza. I buoni sapori che oggi non sento più sul palato.

Ovviamente, ho scritto tutto questo per l'edificazione delle nuove generazioni, che nemmeno sanno cosa si sono perse. Altrettanto ovviamente, quel che ho raccontato si è svolto in un universo parallelo nel quale sono scivolato negli anni giovanili, per poi riemergerne ai primi barlumi di età virile. Purtroppo.

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