Ultimi e primi uomini

In Last and First Men: A Story of the Near and Far Future, il protagonista (un "Primo Uomo", nostro contemporaneo) è identificato semplicemente col pronome "io", ed è mentalmente visitato da un essere che si rivelerà come uno degli "Ultimi Uomini" (i Diciottesimi), che gli racconta e gli offre una visione della storia futura, per due miliardi di anni a venire. Il risultato è un intelletto disincarnato che scruta lo spazio e il tempo, esaminando le vicende di tutte le civiltà e le umanità che si sono succedute nel sistema solare, a partire dalla nostra. Nell'alternarsi di questie storie, emerge una visione ciclica e fatalista, ma non unidirezionale. Né un progresso lineare, né una tragedia votata al fallimento, per Stapledon non c'è nulla di "meritato" o inevitabile in partenza: più che il bene e il male assoluti, esistono valori che avvicinano all'utopia (come il senso comunitario) o all'autodistruzione (come la guerra): e infatti il cattolico C.S. Lewis, pur ammirandone le capacità narrative, gli sarà sempre avversario. Se la scala dell'affresco è quella dell'infinito, la bellezza del libro sta nel dettaglio delle miniature che lo compongono: piccole parabole bioetiche, in cui l'esito non è mai scontato, che propongono casi in cui la politica e biologia possono operare come strumenti portatori di miglioramento o cause della catastrofe).

Da un lato, una profonda fiducia nella capacità di sopravvivenza dell'umanità; dall'altro, un senso incombente di precarietà.

Dietro Stapledon c'è Wells, da La macchina del tempo a La guerra dei mondi, dal Cibo degli dei all'"Uomo dell'anno un milione". Ma la sua qualità distintiva è la mera quantità dell'affastellarsi di presenze, il vertiginoso susseguirsi della galleria di creazioni, dovute all'evoluzione naturale e all'ingegneria genetica, abitanti della Terra, di Marte, di Venere e di Nettuno, con i loro trionfi sociali, artistici e scientifici e le loro cadute (lente o rapide), dovute a stupidità (su tutte, sempre, la guerra), catastrofi cosmiche e biologiche. Riassumerle significherebbe riepilogare buona parte dei motivi della fantascienza, e distruggere buona parte del piacere della lettura. Ma appunto Stapledon è fra i primi a parlare di terraforming, di sessualità multiple, di controllo dell'evoluzione, di costruzione pianificata di esseri senzienti (superiori o meno), di emigrazioni planetarie di massa. Davanti a una catastrofe cosmica che sta per distruggere del tutto il sistema solare, i Diciottesimi e Ultimi Uomini stanno sperimentando la possibilità di inviare (con una sorta di propulsione subatomica - tachionica?) "spore" nell'universo, nella speranza di permettere un nuovo ciclo vitale. E l'altro esperimento è appunto quello della comunicazione con l'umanità passata, nella speranza che la consapevolezza del futuro possa prevenire il disastro. Davanti alla fine prossima (quella di una nuova guerra mondiale per noi, quella della nube galattica per il visitatore), al racconto di fantascienza spetta un ruolo di annuncio della salvezza possibile. Forse, il fascino dell'Infinito di Stapledon sta anche in questo.

Al tema tornerà il seguito Last Men in London (1932), con un Ultimo Uomo in visita a Londra - ma si tratterà di un'opera chiaramente minore. Mentre, anche se con un tono meno solenne, meno estatico, meno euforico, è più importante il successivo Odd John: A Story Between Jest and Earnest, la storia di un mutante che vuole edificare una colonia di suoi simili su un'isola del Pacifico. Come dice il sottotitolo, fra la burla e il senso di urgenza, qui Stapledon esplora un tema affrontato da altri suoi contemporanei (oltre a Wells, J. D. Beresford e John Taine in Inghilterra; e Philip Wylie negli Stati Uniti), e influenzando le successive, e più popolari, visioni di van Vogt, Heinlein, Clarke e Brunner. Il superuomo, allora, è un anticonformista, un diverso, un reietto, condannato all'emarginazione fra gli umani "comuni", costretto a tentare - fallendo - di edificare un mondo a parte insieme con i suoi simili.