Caro Padre Duarte,

sentendomi venire meno le forze ed essendo vieppiù convinto che questo sarà l'ultimo Natale della mia vita, mi preme farle avere questa lettera che per troppo tempo ho esitato a scrivere. Trovo in ritardo il coraggio di raccontarle l'avvenimento capitale della mia vita, pur avendo scoperto nella sua squisita persona un amico. Lei che da anni è il mio confessore mi conosce come un buon cristiano, ammesso che un povero peccatore possa esserlo, e forse mi concederà un po' di credito.

Ciò che sto per raccontarle non è la farneticazione di un vecchio pazzo. Il Cielo mi è testimone.

Avevo undici anni e mi trovavo a Balaguer, un sonnolento paesino non lontano da Tarragona, la mia città natale. Trascorrevo con la famiglia una settimana di villeggiatura, ospite di certi cugini di mia madre. L'abitato è, oggi come allora, arroccato su una bassa collina ai piedi della quale scorre il fiume Segre. Vigneti e oliveti a perdita d'occhio. I miei genitori erano felici del soggiorno, essendo per natura persone tranquille e riflessive. Io ero molto meno entusiasta: un ragazzino, nemmeno adolescente, si annoia a morte senza la compagnia dei coetanei. Passavo interminabili pomeriggi a girovagare per i radi boschetti lungo il corso del fiume, prendendo a calci i ciottoli sparsi sul terreno. Mi faceva compagnia solo l'estenuante frinire delle cicale. All'imbrunire del penultimo giorno della mia permanenza, mentre camminavo a capo chino lungo un sentiero, accadde l'evento destinato a condizionare in modo determinante la mia carriera d'artista.

Una sfera di fuoco attraversò il cielo e si abbatté a poche centinaia di metri dal punto in cui mi trovavo, sul versante più ripido della collina. Era una zona difficile da raggiungere, quasi a strapiombo su uno dei punti più profondi del Segre. Ma la curiosità è una molla potente, soprattutto in un undicenne annoiato. Corsi a vedere, facendomi strada tra i cespugli.

La cosa caduta dal cielo aveva scavato un solco lungo il pendio e si era fermata in precario equilibrio a ridosso di una pietraia; qui e là ardevano piccoli fuochi dove il calore aveva incendiato le sterpaglie. Era una specie di palla di bronzo a spicchi, uno dei quali, sollevato, lasciava intravedere l'interno. A pochi passi di distanza, in posizione prona, era riverso l'uomo più piccolo che avessi mai visto. Vestiva bizzarri abiti iridescenti, strappati in più punti. Il colore della sua pelle aveva una strana sfumatura violacea, così come i capelli cortissimi. Il naso e la bocca erano piccoli e sottili mentre gli occhi neri erano molto grandi. Sentendomi arrivare, volse lo sguardo nella mia direzione. Impaurito ed affascinato al tempo stesso, mi chinai su di lui. Mi guardò a lungo, poi protese le braccia ed appoggiò le piccole mani alle mie tempie. Dapprima provai un lieve senso di vertigine. Poi un caleidoscopio di immagini prese a fluire nella mia mente: oceani sconfinati dai quali emergevano incredibili creature, foreste di alberi immensi e fantastici, città dalle architetture arditissime, una piccola e bella donna con i capelli indaco. Dopo istanti, minuti, forse ore, la creatura mi lasciò andare. Credo fosse morta. Mi allontanai da quel luogo senza voltarmi indietro e senza provare il minimo turbamento. Non raccontai nulla a casa. Nessuno trovò mai l'oggetto caduto dal cielo ed il cadavere del suo strano occupante. Probabilmente le violente piogge che si scatenarono pochi giorni dopo la mia partenza da Balaguer fecero scivolare la sfera ed il corpo nel fiume. Io tacqui per decenni sull'accaduto; soltanto molti anni dopo, nel segreto della confessione, ne parlai col suo predecessore, Padre Ibanez. Il sant'uomo mi ascoltò con pazienza e mi concesse l'assoluzione, ma probabilmente non credette alle mie parole.