Fabio non mi era sembrato moribondo, ma di lì a poco Nadia si mise a parlare di ciò che, secondo lei, stava succedendo nel mondo. Nel teorema ficcò a forza di tutto, dalle multinazionali al terrorismo, dai bambini del terzo mondo alla proliferazione dei nuovi virus che - a sentir lei - infestavano il corpo in decomposizione della società. Io rimasi ad ascoltarla seduto sullo sgabello cigolante, nello studio, con intorno la scenografia di quadri incompiuti a cui ero abituato. Non avevo visto il telegiornale, quella mattina? Non avevo sentito dei focolai di febbre emorragica in America? Non sapevo dei terroristi che avevano irrorato di gas nervino l'aeroporto di Buenos Aires? Non mi preoccupavo per i casi di fascite necrotizzante in Inghilterra?

Anche più tardi, a letto, Nadia proseguì coi suoi discorsi; insisteva con quell'idea a cui era tanto affezionata: l'apocalisse. La intendeva letteralmente: rivelazione. - Presto gli uomini riveleranno ciò che hanno dentro e ognuno potrà vedere l'anima del suo prossimo e non ci sarà più posto per l'ipocrisia e le menzogne - continuava a ripetere.

Finsi di ascoltarla e non mi accorsi di addormentarmi, perché in sogno continuai a sentirla parlare in un immenso auditorio, circondata da persone con ogni genere di deformità; lei stessa, a un certo punto del sogno, si sbottonava la camicetta per mostrare il ventre da cui sgusciavano appendici carnose simili a feti. Tastandole urlava, poi scoppiava a piangere.

Mi svegliai e mi accorsi d'udire realmente i suoi singhiozzi. Allungai la mano verso la metà di letto accanto a me, trovandola vuota.

Nadia era in bagno, davanti allo specchio, la camicia da notte arrotolata sino ai fianchi. Intorpidito dal sonno le domandai cosa avesse da disperarsi tanto. E quando capii, un brivido mi attraversò il corpo come il tremore occulto di un palazzo che sta per crollare.

La pelle del ventre e delle gambe di Nadia era punteggiata di nei, certi piccoli come capocchie di spillo, altri grandi come bottoni. Centinaia di nei che non avevo mai visto prima. Rimasi immobile, ammutolito, finché lei mi gridò con voce strozzata: - perché cazzo fai quella faccia?! - Strinse il bordo del lavandino e mi guardò attraverso lo specchio. - Merda! Dì qualcosa!

- Dovresti andare in ospedale - ubbidii con voce piatta.

Scosse il capo. Mentre sopprimeva il pianto sembrò che stesse ridendo. Si passò le mani lungo le gambe, nell'interno delle cosce, sul ventre svuotato dall'isterectomia, e le scivolò tra i denti un lamento sibilante, come se espellesse insieme fiato e paura. Chiuse e riaprì gli occhi. Infine lasciò ricadere la camicia da notte e si diresse in camera di Fabio. Svegliò nostro figlio accendendo la luce. Prima ancora che lui avesse il tempo di rendersi conto di com'era conciato, mia moglie aveva ricominciato a piangere, le mani strette a pugno e il petto sussultante. Fabio, in maglietta e boxer, aveva le estremità completamente ricoperte degli stessi nei rossicci che sul volto si confondevano coi brufoli. - Io chiamo l'ospedale - dissi. Col passo di un sonnambulo andai in corridoio, dove sollevai il ricevitore e composi il centotredici.

Rimasi a lungo in attesa, con nelle orecchie una voce registrata che m'informava che tutti gli operatori erano occupati. Finalmente rispose una donna: trafelata, disse che non c'era niente da fare e che potevo soltanto fornire il mio indirizzo e la quantità dei contagiati che avevo in casa. Non riuscii nemmeno a formulare una domanda comprensibile. Riattaccai, peggio che stordito, incapace di parlare a mia moglie, che mi stava sbraitando chissà cosa dalla cameretta di Fabio.