Elisabetta Vernier e Luigi Rosa, alla Deepcon IV di Fiuggi, marzo 2003
Elisabetta Vernier e Luigi Rosa, alla Deepcon IV di Fiuggi, marzo 2003

Quanto non c'è dei cliché cyberpunk nei tuoi racconti, ovvero cosa non ti piace del genere cyberpunk che hai voluto modificare o evitare?

Diciamo subito che ClipArt è soprattutto cyber e per niente punk.

E' cyber perché è pervaso dalla tecnologia d'avanguardia tipica del genere, computer con interfaccia neurale, innesti bio-tecnologici, un po' di realtà virtuale. Del cyberpunk originale, forse, condivide unicamente l'ambientazione di fondo: una città degradata e un mondo ormai irrimediabilmente compromesso dal punto di vista ambientale.

Quello che non si trova in ClipArt, invece, è la parte "punk" di cyberpunk, quella che di solito implica un individualismo un po' anarchico dei protagonisti, quasi sempre anti-eroi perseguitati dalla vita che tirano avanti in una condizione di estrema solitudine e disillusione, senza possibilità di riscatto, senza mai vedere la luce alla fine del tunnel.

Non si trova neppure il linguaggio barocco di Gibson e di Sterling, che ormai ha fatto il suo tempo. Niente più cieli del colore di un televisore sintonizzato su un canale morto, please!

I primi racconti che ho scritto, soprattutto Hungry Light, risentivano un po' del linguaggio Gibsoniano allora tanto di moda: ma stiamo parlando del 1996, quando in Italia il cyberpunk era sulla cresta dell'onda. Ora siamo nel 2003 e non c'è niente di più out: provate a mandare un racconto à la Gibson a un concorso letterario e potete essere certi che farà venire il mal di pancia ai poveri giurati. Personalmente, sia quando leggo che quando scrivo, preferisco il linguaggio diretto, coinvolgente e scorrevole dei romanzi d'avventura mainstream, che non si perde in descrizioni decadenti, in metafore convolute e in oscure citazioni psicanalitico-filosofiche. Jung l'ho studiato a scuola e mi è bastato, grazie. Ora lasciatemi divertire un po'!

Come ultimo elemento, parliamo di trama. Spesso la trama, nei romanzi cyberpunk, diventa quasi un accessorio, un pretesto per mettere in scena la vita e le sfortunate peripezie dei protagonisti: questo modo di scrivere non mi ha mai convinto. Detesto mettere giù un libro con la sensazione di non aver capito niente, con la netta impressione che mi sia sfuggito l'intero senso della storia. Secondo me un romanzo, per essere un buon romanzo, deve anche avere una trama solida e ben articolata, che seduce il lettore e lo trascina con sé dalla prima pagina del libro all'ultima: in ClipArt ho cercato di fare così e spero di esserci riuscita.

Lo strillo di copertina dice "un romanzo cybermanga"... il cyber l'abbiamo visto, e di manga invece cosa c'è?

Il linguaggio dei personaggi, soprattutto. Qualcuno ha osservato che è un linguaggio "duro", ma secondo me è solo un linguaggio vero. Ho la netta impressione che il pubblico italiano non sia più abituato a personaggi che parlano come mangiano. Oggi, al cinema e in TV, tutto deve essere politically correct e, quando non lo è, lo si fa diventare tale adattando i dialoghi e limando gli spigoli. Secondo me questo uccide tutto il realismo dell'azione e dei personaggi. Soltanto i manga e gli animé, quando non passano sotto le mani del Catone il Censore di turno, riescono a proporci questo tipo di linguaggio diretto, senza mezzi termini.

Lo spirito manga di ClipArt traspare anche dal modo in cui i protagonisti si rapportano al sesso: niente tabù e falsi pudori, alla giapponese. La festa di Xander era veramente un festino a luci rosse, non un party sfuggito di mano; Candy è proprio una puttana e fa il mestiere per calcolo, non perché è una povera ragazza perduta. Non c'è redenzione per il cattivo di turno, come accade nelle produzioni hollywoodiane e italiane, e l'eroe alla fine è spesso solo un povero ingenuo. Quando ho scritto ClipArt l'ho voluto schietto, senza vergogne ipocrite, senza pretese di moralità.