Molto prima dell'olocausto, prima che il fungo rosso s'inerpicasse verso il cielo ormai inesistente, prima che lo spettrale annuncio di morte lo fissasse con i suoi occhi incandescenti e rovinosi, gli era capitato d'addormentarsi alla musica delle sartie che battevano contro gli alberi delle grandi navi a vela solare; ma allora era solo un rumore come un altro, senza importanza. Da tempo aveva smesso di chiedersi perché non riuscisse più a udirlo nello stesso modo, perché ogni cosa avesse il suono di un lamento o del latrato di un cane.

I rumori avevano dimensione, profondità, colore. Non ricordava quanto tempo avesse impiegato per impararli tutti, ma era parecchio, o almeno così gli sembrava. Lo scroscio della pioggia era un bianco sfrigolio d'acido sulla carne e, sebbene tutti i cadaveri dovessero essere da tempo sepolti nella sabbia, ancora si meravigliava di percepire il terribile, convincente odore di putrefazione. Avvertiva il respiro azzurro del vento che correva libero, non costretto dalle case a tortuosi percorsi; il balbettare del grigio, ruvido pulviscolo nell'aria putrida; il sibilo delle verdi, opprimenti esalazioni che venivano dalle piante; il ronzio metallico del depuratore; l'odore rosso del sangue, del disinfettante e il silenzio della solitudine. che aveva il colore e l'odore della paura.

Aveva imparato che si poteva dormire a occhi aperti, che il giorno era la voce di lei e che solo la notte muta faceva paura. La vita era un'eredità che rimpiangeva d'avere, una sfida alla ragione. Aveva bisogno di lei, che non aveva mai saputo distinguere una quercia da un acero, che sembrava ignorare come l'arcobaleno fosse solo luce riverberata in milioni di minuscole gocce d'acqua, che descriveva quello che vedeva come chi ripete le parole di un ricordo. Di lei e dei suoi sforzi per nascondergli tutto, della sua pazienza triste e delicata che non riusciva a vincere la paura. Pregava Dio perché la riportasse ancora una volta, e s'odiava per questo.

- Dovresti andartene - le aveva ripetuto più volte. - Va' via, ti dico, fa' presto, che questo non è più posto per te. Non vedi che è una pazzia? Non senti quanti sono? Cosa vuoi fare da sola?-.

- Ora smettila, ti prego, non ricominciare. Voglio prendermi cura di te, lo so che non sono abbastanza brava, ma ti voglio bene. - rispondeva con inutile eroismo, ma con una sincerità che lui sapeva riconoscere.

- Vattene, per l'ultima volta. Potresti stare meglio senza di me. Dimmi che non ci hai mai pensato.

- Io sono fortunata e ringrazio Dio ogni giorno per averti. Non voglio che mi mandi via.

- Nessuno vuole mandarti via. - diceva allora, pensando che sarebbe sicuramente morto da tempo se lei non gli fosse rimasta accanto, e che quella sarebbe stata la cosa migliore.

Fuori, il vento seguitava a soffiare dal mare morto, attaccandosi alla sabbia, strappando latrati ai cani e traendo note lamentose dalla cenere. All'improvviso udì distintamente la tenebra respirare e gemere dietro la porta, gli artigli graffiare il metallo e le fauci fameliche ringhiare. I cani che erano sopravvissuti non erano soltanto i più grossi, ma anche i più furbi. Erano i figli dei figli della prima muta trasferita sul pianeta, animali che avrebbero dovuto rallegrare le solitarie giornate dei coloni. Solo quando lei non c'era osavano avvicinarsi così al faro, a caccia di cibo.

Cercò di ricordare il loro aspetto, ma quelli che immaginava non erano cani molto precisi, bensì stente creature perse in un mare di visioni, con grosse chiazze di carne ustionata e musi aguzzi come armi da punta, fauci stillanti bava e occhi corruschi.

Ancora una volta un pensiero si fece strada come una lama di luce fra le ombre che confondevano la sua mente: c'era solo una cosa che poteva fare se davvero voleva aiutarla.