Poi la prima scossa alla mia vita tranquilla. Mi chiamano un paio d'anni fa. Un compagno di naia. Aveva voglia di risentirmi. Facciamo quattro chiacchiere. Ammetto di non essere stato il massimo dell'amichevolezza. Poi mi dice che Magni è morto in un incidente d'auto due mesi fa. Una vera mazzata. Mi dice che l'incidente è stato una cosa strana: era in macchina dalle parti di Tagliacozzo, era una giornata calda, c'era il sole, la strada era asciutta, non passava nessuno, ma Magni con la sua Volvo ha tirato dritto a una curva. Niente segni di frenata, niente olio per terra. Inspiegabile. S'è fatto un bel volo e s'è schiantato su una stalla. Morto sul colpo. Dopo qualche altra chiacchiera ho praticamente riattaccato. E da allora annego nell'angoscia. Non oso pensare al vero motivo dell'incidente. Ma in effetti, inutile girarci intorno, lo so. Me lo sono spiegato anche troppo bene con quello che m'è successo la settimana scorsa.

Era sabato. Ero andato con mia moglie dalle parti di Capranica, dove abitano i miei suoceri. Il pomeriggio, per digerire fettuccine e abbacchio, decidiamo di andare a fare una passeggiata. Lei però dopo un po' si stanca. Eravamo vicini a un fontanile, la strada sterrata che stavamo facendo proseguiva. La lascio lì con mio suocero, e proseguo, dicendogli di aspettarmi lì. Volevo vedere se per caso trovavo qualche fungo. Cammina cammina mi ritrovo in un bosco di querce bello folto, un ceduo fitto e scorbutico. Di colpo un grande silenzio mi ha avvolto, trascinandomi via. Sapevo cos'era, lo ricordavo. Ero già stato lì.

Poi, dopo una svolta, mi trovo davanti uno sbarramento di pali di legno e travi di ferro piantate per terra. E dappertutto cadaveri. Sullo sbarramento. Sulla strada, tra gli alberi. Decine, centinaia. Ricordavano quelli del Gran Sasso: avvolti in tute mimetiche a chiazze. Qualcuno a torso nudo. Giovani. Corpi straziati, senza gambe, senza braccia, le budella di fuori, le facce sfondate, mascelle strappate. Un orrore tale da paralizzarmi. La faccia della guerra.

Poi sento una voce. Un gemito. Un verso quasi animale. Tutte queste cose in un unico suono. Viene da un punto sulla mia destra. Tra gli alberi. Mi avvicino. Cammino esitante tra i cespugli di ginestre, i ciuffi di pungitopo, i tronchi scabrosi delle roverelle, i fucili automatici caduti per terra, i bossoli che coprono il terreno come fiori gialli. I morti. Finalmente capisco chi è che si lamenta: uno che non ha finito di morire. Sta seduto contro un albero: ha una brutta ferita all'addome, la mimetica è tutta zuppa di sangue, sull'inguine, sulle cosce. S'è tolto l'elmetto, mi fissa. Mi conosce. So chi è.

- Giuseppe.

Lui mi fissa, mi mette a fuoco. Nonostante le strisce nere e verdi che ha sulla faccia riconosco gli occhi, appannati dal dolore.

- Giacomo, - fa lui. Come fossi un amico. Uno conosciuto per sbaglio, tanti anni fa, in un altro posto. Eppure è contento di vedermi. Come fossi davvero un vecchio amico.

- Giacomo, - fa, la voce flebile ma animata da una determinazione tremenda. - E' finita.

- Chiamo qualcuno...

- Non c'è niente da fare. Lo so. Giacomo, aiutami.

- Che vuoi che faccio? - dico avvicinandomi e chinandomi. - Che posso fare, io?