di

Pierdomenico Baccalario

Sören

Fantascienza, cyberpunk, realtà virtuale, fantasy e chissa' cos'altro ancora. In questo racconto di Pierdomenico Baccalario (tratto dal suo romanzo Il Dio sussurato), c'è un po' di tutto, cose che abbiamo già letto e che già conosciamo, ma come dice il protagonista stesso di questo racconto "l'atmosfera è tutto", e Baccalario riesce a dare atmosfera alle sue incursioni nella realtà virtuale e alle lotte epiche con i mostri della nuova mitologia elettronica, e questo basta per rendere godibile il suo racconto e raccomandarne la lettura ai naviganti di Delos. (Franco Forte)

Resoconto del racconto fattomi da Sören Graughart, nell'Ospedale del satellite Mysericordiam di Cittàenea, nel quale è ricoverato.

Vuole che le racconti tutto dall'inizio? D'accordo, tanto non ho nulla da perdere. Proprio nulla. Se anche ne esco vivo, da questo posto, mi mettono in galera. Non mi ammazzeranno, non credo, perché non ho ucciso nessuno; io stavo solo a guardare. Come Kay. Ma lei l'hanno ammazzata. E non sono stato certo io, a tagliarle la gola. No. Io ero nella Madre con Etan, quel giorno. Dio santissimo. Se solo mi rimettessero in funzione, perché adesso ho tutto di metallo, qui dentro... Sono già due mesi che sono immobilizzato qua sopra. Tutto questo tempo per poi farmi processare dai preti. Lo so che faccio impressione. Ma io sono felice di essere ancora così dopo quello che ho visto là dentro, con Etan. Lei non può nemmeno immaginare, padre, che cosa significhi morire virtualmente. Non può.

Iniziò tutto in una giornata di poggia, come le storie migliori. Era estate, quarantaquattro mesi fa, e io studiavo ancora all'università. Ho una memoria di ferro per le date, e so con precisione che io ed Etan lavorammo per quarantadue mesi, prima che lui ci rimettesse la pelle. Il pianeta era Knud, all'inizio, un piccolo satellite con bandiera danese. Allora io non ero ancora Jonny, ma Sören. Sören Graughart, figlio di Hans e Anne di Ribe. Su Knud c'erano due grandi ammassi cittadini, Ribe e Nuova Kobenhavn; la prima era la città più tradizionale, e i suoi abitanti erano tutti con la testa sul collo, onesti conservatori. Ribe era tutta ordinata, antica, piena di belle ville e giardini, e sembrava che fosse meno soggetta alle intemperie. Nuova Kobenhavn era invece la città dei liberi, dei giovani, della tecnologia. Lunghe vie di palazzi altissimi con mille finestre e camere per gli studenti, negozi illuminati dai neon, bancarelle di hot-dog e pesce fritto, e migliaia di biciclette che schizzavano nelle vie bagnate come lucciole. Era un via vai di impermeabili per la pioggia, di stivali, anfibi neri, tra i locali affollati da ragazzi di ogni parte di Knud.

Il giorno in cui conobbi Etan ero a piedi, e stavo risalendo il RabaekSopark per raggiungere Kunsthave, un vicolo di mattoni in cui si trovava il Park Café, il mio locale. La pioggia mi era entrata nel sangue e io mi sentivo gelido come il metallo; sembrava che gli stessi anfibi fossero pieni d'acqua. Mi stringevo nel maglione, alzandomi il bavero dell'impermeabile trasparente, ma era tutto inutile. Alcune bici mi passarono accanto, alzando una scia d'acqua dalle pozzanghere.

Il Park Café era un edificio di cemento senza alcuna insegna, e sorgeva proprio alla fine di Kumsthave. Di fronte all'entrata, sui gradini, c'erano i due buttafuori con le magliette bianche e la scritta Park Café. Già da dove mi trovavo si sentiva la musica provenire dall'interno. Entrai passando dalla porta girevole, e mi ritrovai nella consueta atmosfera densa di fumo.

C'era una sola grande stanza, illuminata da una decina di lampadari vittoriani appesi a lunghi fili neri, simili a ragni, e numerosi tavolini verde elettrico ammassati lungo le pareti. Su un lato vi era il bancone, semisommerso dal fumo, e sopra di esso un ballatoio con una grata di metallo alta fino al soffitto, cui si accedeva tramite una scala di ferro. Di sopra c'era la discoteca e Magat, un buttafuori, controllava che quelli che salivano la scala avessero il tatuaggio "park-dance" sul polso.

Il Park era decisamente affollato, perché nel centro della sala un gruppo famoso stava suonando un rock molto orecchiabile, anche se decisamente antiquato.

A spinte raggiunsi il bancone, cercai uno sgabello mentre un primo applauso accompagnava l'assolo del bassista, gocciolante di sudore.

Holger Danske mi servì, riconoscendomi. Holger (avrà avuto quarantacinque anni) era alto più di due metri, quasi calvo e con i pochi capelli lunghi oltre le spalle, barba e baffi affilati, un fisico potente, coperto di tatuaggi. Mi diede qualcosa, non ricordo, e mi disse: - C'è un tipo che ti può interessare, laggiù, con Steffen. - Mi indicò un tavolino, aspettando che tra la folla vociante si aprisse un varco sufficiente a farmi vedere il luogo in questione. Annuii, scorgendo Steffen. - Cerca uno sperimentale con le palle, ha detto. E io ho pensato a te.

Sorrisi, presi la mia roba e mi feci largo fino ai due tipi. Lo "sperimentale con le palle" mi era stato affibbiato da Holger durante l'ultimo concertino. Avevo ventitré anni, allora, e facevo musica elettronica nella cantina sotto la mia camera. Mi ero ricavato un buco tra le lavatrici a gettoni, ci avevo portato le prese di corrente, messo su tre pareti di cartongesso e isolato tutto con i contenitori delle uova. Ma non serviva isolare, perché lavoravo in cuffia, usando computer e tastiera. Holger mi aveva fatto suonare nel Park già un paio di volte, e la mia musica aveva avuto un buon successo. Ma non era la musica, in realtà, era l'atmosfera, e la gente va matta per le atmosfere.

Steffen stava ridendo, e l'uomo con cui si trovava al tavolo era voltato verso il centro della sala. Era Etan.

Io ero un po' artista, vede, e pensavo che fosse bello scorgere la bellezza. E già allora, nello specchio, non ci ero mai riuscito: faccia butterata, occhi troppo vicini... No, non sono mai stato una bellezza.

Etan, invece, era bellissimo. Immagini un ragazzo di ventiquattro anni, alto, con spalle larghe, fianchi stretti, un collo lunghissimo che reggeva un viso incredibilmente... pulito.

Non aveva rughe, tatuaggi, orecchini... Nemmeno la barbetta tipica degli studenti: capelli corti, bocca piccola, zigomi appena accennati. Non era di Knud, lo si capiva subito.

Mi sedetti, e fu Steffen a fare le presentazioni. Disse più di una volta che io ero il tipo giusto. Proprio il tipo giusto. Etan sembrò studiarmi, mentre Steffen mi raccontava che lui era di Esfra e che stava cercando un musicista. Quando si arrivò al dunque, Etan invitò Steffen ad alzarsi. Il biondino quasi ci rimase secco.

- Ehi!- disse - C'ero anch'io, nel piano!-

Etan alzò un sopracciglio. - Che piano? A me serve solo un buon musicista. - Steffen lo mandò a fare in culo e se ne andò. Il locale era talmente affollato, ora, che le note della batteria sembravano solidificarsi e piovere sui miei timpani come tegole.

Quella sera Etan mi convinse a entrare nell'affare, perché di un affare si trattava, ma mi spiegò meglio le cose quando raggiungemmo in taxi la sua stanza. Era quasi mezzanotte, e le orecchie mi fischiavano. Mi gettai su un divano informe, di fronte a una serie di oggetti e mobili coperti da un panno azzurro.

- La mia centrale - disse Etan, sollevandolo. La sua stanza era moquettata di grigio, e il plafond spandeva una luce pastosa blu scura, che mi spingeva a chiudere gli occhi. Sotto il panno, ovviamente, c'era una Vasca Umorale, un terminale e migliaia di cavi attorcigliati come ragionamenti difficili.

Prima di conoscere Etan non avevo mai pensato alla Madre. Cioè, la usavo con i computer, ma non mi ci ero mai tuffato. Così osservai con terrore quelle quattro pareti di vetro, immaginandomi la sensazione angosciante del trovarsi immerso nell'acqua, o cosa cazzo era.

- É Liquor. Si respira. É una sostanza che abbiamo dentro il corpo, e serve per controllare il nostro sistema nervoso.

Etan era un Corsaro. Forse uno dei migliori. Aveva lavorato da solo, agli inizi, ma già a diciotto anni l'aveva preso un corporativo, che gli passava le informazioni sui colpi. Ed Etan si preparava i programmi, si attrezzava e si tuffava, per scardinare, rubare e sostituire, prima di ritornare al proprio appartamento. Tre anni con il corporativo e infine, l'anno prima, quando già si era comprato quella camera in Nuova Kobenhavn, era passato per la Little Red Dragon e si era messo in proprio. Lo disse con tanta semplicità che quasi non ci pensai. La Little Red Dragon, dove avevano inciso i Tunnel Moon, Okies Fischer, che Dio l'abbia in gloria, e i Solitarie Flag.

Gli domandai come fosse viaggiare nell'utero marino della Madre, e lui cercò di descrivermelo, ma le parole non mi diedero la metà delle sensazioni che provai quando, qualche settimana dopo, ci entrai.

Non esistono parole per descrivere un mondo che non esiste, okay?

Quando gli chiesi di spiegarmi cosa c'entrassi io nei suoi affari, dato che non sapevo nulla di Amnio, di pellegrini e di quelle puttanate lì, lui mi rispose solamente: - Voglio renderti famoso, Sören. E ricco. Ricco come non hai mai pensato di poter diventare.

Fissammo l'appuntamento con un ricettatore che lui conosceva, un ex della Little Red, o della Tsunabu, non ricordo, per comprare ciò che serviva. Ah, ovviamente io avevo accettato a scatola chiusa, perché riuscivo solo a pensare che Etan dicesse la verità. E volevo diventare ricco e famoso.

All'appuntamento c'era anche una donna, Kay Slange (il suo cognome, in danese, significa serpente). Eravamo in una piazzetta affollata della città vecchia. Kay era una bella ragazza dai capelli rossi, e da come guardava Etan capii che tra loro doveva esserci qualcosa. Fu lei a farci strada, e dopo una decina di minuti entrammo in quello che a me sembrava un garage.

- Vado a chiamarlo. - Ci disse. - Sedetevi lì. - E ci indicò due poltrone dalla foggia strana.

- Stessa procedura? - Domandò Etan, e lei non rispose; sparì nell'unico corridoio che partiva dalla stanza. - É uno dei migliori... - Aggiunse Etan, rivolto a me. - Se stai attento ai virus.

L'uomo che entrò poco dopo era piccolo e vestito di verde, con una tunica che gli copriva il viso rugoso e che scendeva fino a terra. Sembrava che non camminasse, ma che si muovesse a pochi centimetri da terra. Senza nemmeno salutarlo Etan gli elencò tutta una serie di componenti che non saprei ripetere. - Ora passiamo a lui. - E mi indicò. - Ti serve qualcosa per far musica nella Madre? Qualche cosa che non hai? Mixer, moduli multitimbrici, interfacce...?

Io cercai velocemente di affrontare il problema "musica nella Madre". Riuscii a individuare una serie di cose che mi mancavano. - Che tipo di musica? - Provai a chiedere, ma Etan mi zittì. - É tutto - disse, lasciò un recapito e la sua carta di credito. L'uomo li prese e sparì nel corridoio dal quale era spuntato.

Ovviamente io non ci avevo capito un accidente, e provai a chiedere spiegazioni a Etan. Uscimmo in strada nuovamente con Kay, e ci rifugiammo tutti e tre in un bar.

- Senti, Etan, io non ci ho capito un cazzo. Ti dispiacerebbe spiegarmi che intenzioni hai?

Lui mi guardava come se in realtà fosse assente, poi si portò una mano all'altezza dei reni, doveva aveva gli innesti, fece un clack e prese un microcircuito integrativo.

- Usiamo questo, Sören.

- Perfetto. Allora, ti dispiacerebbe spiegarmi cosa cazzo è quello?

Fu Kay a rispondermi. - Contiene un programma inventato da Etan. É una sorta di convertitore: materializza oggetti virtuali partendo da vibrazioni sonore.

Guardai Etan. - Non capisco.

- Sören, la Madre è un'astrazione: non esiste. Eppure quando ci vai dentro esiste, ed esisti anche tu, anche se rimani chiuso nella tua vasca. Nella Madre vedi delle strutture, e tu stesso sei una struttura. Viaggi come "qualcosa", dentro "qualcosa" che non dovrebbe esserci, eppure c'è. É tutto generato per convenzione. Tutto virtuale. I computer lo creano, ti creano, ti distruggono. Okay?

- Sì.

- Ma i computer devono partire da qualcosa. Qualcosa di esterno. Quando tu lanci un programma deflagrante, il computer legge i dati per poi alterare la non-materia della Madre, secondo le istruzioni lette. Questo mio chip converte informazioni sonore in non-materia della Madre. In pratica traduce le atmosfere che tu crei in qualcosa di solido, là dentro.

Ero esterrefatto.

- Converte vibrazioni, suoni, rumori, in immagini. Tu suoni una marcia e là dentro si crea un esercito; un valzer, e appare un salone con tanto di lampadari a gocce di cristallo.

- Ma come puoi sapere cosa stai per creare, quando suoni?

- Ogni suono ha una sua immagine. Quando componi non pensi a qualcosa?

- Ma quello che penso io può non essere trasmesso dalla musica... Ognuno è libero di accostarsi con la sua fantasia... A...

- No. Se davvero suoni con un'anima, trasmetti una serie ben definita di immagini. - Disse Kay. - É un teoria scientifica.

- Siete tutti matti. - Dissi, sorseggiando la mia birra. - Tutti matti.

Quella sera ci ubriacammo, poi Etan mi lasciò a casa e sparì nella notte con Kay.

Ricordo ancora perfettamente quando facemmo il colpo. Era il venerdì successivo al giorno del ricettatore, sera piovosa. L'appuntamento era al Park per le dieci, e io lo rispettai. Mi comprai del fumo, che feci andare aspettando Etan.

In quei giorni avevo pensato molto a lui. Mi piaceva. Mi aveva affascinato da subito, con quella sua espressione sempre calma, quel suo aspetto ricercato. Il fumo conciliava l'estraniazione e quando Etan entrò nel locale, con Kay, provai una fitta al cuore, faticando a focalizzarlo. Non feci niente per farmi notare e loro mi cercavano tra i clienti del Park. Etan era bellissimo, mentre Kay mi faceva rabbrividire, a fianco a lui. Avrei voluto esserci io.

Non è il caso di nasconderlo, a lei, come allora facevo anche con me stesso: penso di essere omosessuale. Non lo so, a dire il vero, ma penso di sì. E non me ne frega un cazzo. Sono sempre stato un solitario, non mi sono mai interessate le donne... Ma neanche gli uomini, a dire il vero. Tranne Etan.

Avrei fatto qualunque cosa, per lui.

Agitai una mano, e loro mi scorsero, avvicinandosi nella calca di persone fosforescenti e di cappotti di plastica che si dimenavano al ritmo di una musica sfrenata dei Tribal Karnhatu.

- Sei pronto, Sören?-

Mi pizzicava il naso, ed avevo la salivazione pesante, a causa del fumo, tuttavia annuii. - Dove?

- A casa mia.- Disse Etan. Kay sorrise, stringendosi a lui.

Uscimmo nella via scintillante, sferragliante di pedali, lasciai lì la mia bicicletta ed andammo fin da Etan.

Là era tutto in disordine, il letto sfatto, i vestiti gettati per terra, e nell'aria c'era uno strano odore di chiuso, o forse di sudore. Kay, come fosse stata una padrona di casa, si affrettò a raccogliere da terra alcune cose e a rassettare il letto, mentre io ed Etan ci avvicinammo alle nostre apparecchiature (avevo fatto portare da Etan tutte le mie tastiere). C'erano la Vasca Umorale, un paio di console, apparecchiature simili a casse di amplificazione, un'enorme ventola di raffreddamento che scaricava in esterno, un casco di realtà virtuale ed almeno quattro monitor ed altrettanti deck.

- Si parte. - Disse Etan, azionando un interruttore centrale, e la stanza si riempì di ronzii, sibili, intermittenze. - Ora ti dirò cosa devi fare, Sören, o preferisci che ti chiami Jonny?

- Jonny?

- Jonny Gellesbee, il musico della matrice, il creatore di feticci.

- Suona bene, Et, ma non sono sicuro di aver capito. - Kay, dal bagno, entrò nella camera, si spogliò, rimanendo in biancheria, e si accomodò di fronte ai monitor dei computer. Effettivamente cominciava a fare caldo. - Cosa devo fare?- Terminai.

Etan sorrise. - Io vado nella Madre, tramite quella, e tu vieni con me. Kay ci controllerà di continuo, e sarà pronta a fermare la procedura in pochi istanti.

Guardai prima uno poi l'altro e che fossi maledetto se ascoltai una sola parola di quello che avremmo fatto. Mentre Etan parlava io ero distante anni luce. Quando terminò, mi accorsi immediatamente di non aver sentito nulla, e fui assalito dal panico: cercai di recuperare, di concentrarmi, ma avevo ancora la mente annebbiata dal fumo.

- Non pensi che dovremmo prima provare in un ambiente tranquillo? - Domandai ad Etan, mentre cominciava a spogliarsi.

Lui mi sorrise, mi rassicurò, rimanendo poi nudo davanti a me. Era magro, eppure proporzionato, ben fatto, non so se mi capisce... Lui attese che io mi sedessi davanti alla mia tastiera, che indossassi quella specie di casco, intanto mi agganciò ai polsi una serie di elettrodi, ed un paio alle caviglie. Mi legò alla sedia, perché non cadessi, ed io rimasi lì, nel buio, sentendo solo sotto le dita i tasti della Roland ed assaporando i momenti in cui il corpo di Etan, passandomi accanto, mi sfiorava.

- Ora vedi gli strumenti, Jonny? - Io annuii, perché nell'interno del casco, ai due lati del campo visivo, erano apparse due liste di caratteri. - Li vedo.- Provai a pensare ad un violino, e nella lista si evidenziò lo strumento corrispondente. Suonai una nota. - Ok. - Confermai.

Etan si allontanò, lo immaginai entrare nella Vasca Umorale e rincantucciassi dentro il Liquor come un feto, la Vasca chiudersi, tenere il suo corpo in sospensione e...

- Etan è andato, Jonny. - Mi disse Kay. - Ora tocca a te. Sentirai un po' male, ora.

Cristo. Non ha idea di che male provai. Non può. Dalla base del casco si estroflessero almeno quattro sensori, che penetrarono fino al cervelletto e nel condotto del midollo. Sentii il cranio esplodermi, la spina dorsale spezzarsi come un biscotto. Urlai, ed il mio urlo si sovrappose a quello di Etan.

- Ci sei. - Disse Kay, o forse lo immaginai. - Ci sei.- Disse.

L'interno del casco divenne una muraglia d'acqua che mi sommerse, lasciandomi senza fiato in una struttura liquida senza dimensioni, che mi divorò. Provai l'istinto di ritrarmi, ma l'imbracatura mi tenne ben legato alla sedia. Mi mancava il fiato, eppure respiravo e nonostante il mio corpo fosse immobile, paralizzato, stavo fluttuando come un'alga in quel lattice color del the.

Continuavo a non respirare e mi sembrava di ansimare, anche se mi stavo lentamente calmando. Lontano cominciavo ad osservare pallide luci tremule, simili a lucciole, e vene, capillari, gangli, non so come spiegarle... Cellule in movimento.

Suonai. Avevo ancora il violino e le mie mani crearono una specie di ninna nanna ad una sola voce, lenta, rilassante, che servì a placare quel respiro che ascoltavo, e a me per cominciare a prendere fiato.

- Etan? - Domandai, cercandolo intorno a me, e rendendomi per la prima volta conto che ero solo.

- Etan? - Ripetei più forte, spezzando l'incantesimo di pace che la ninna nanna aveva portato. Aggiunsi un suono lungo, basso, per dominare il panico.

- Sono qui, Jonny. - Mi rispose Etan appena la musica si stabilizzò. - Sono qui. - E solo allora capii perché anche lui aveva urlato, e perché sentivo un respiro che non era mio.

- Qui, Etan? - Domandai a me stesso, perché non c'era nessun altro.

- Siamo una sola persona, Jonny. Tu sei me, ed io sono te. Vediamo con gli stessi occhi.

- Perché non me lo hai detto? - Domandai, ingoiato da una vertigine.

- Non lo so. Pensavo che avresti rifiutato. Che non avresti mai accettato di unirti in modo così profondo a me. Di diventare una sola entità.

Pensai a Kay, lo ricordo, e mi accorsi che l'invidia che provavo per lei era scomparsa istantaneamente, al pensiero che solo io potessi riuscire ad essere così vicino all'anima di Etan.

- Sento il tuo respiro agitato, Jonny. - Mi disse, perché come io ascoltavo il suo, lui sentiva me.

- Passerà. Cosa vuoi fare, adesso? - Il corpo di Etan/Sören si incurvò su se stesso, rivelando il sottile cavo (mi pare che si chiami Cordolo Ombelicale) che ci teneva uniti al computer. - O c'è qualcosa di diverso o di nascosto che non dovrei sapere?

- Andiamo alla banca di New Kobenhavn.- Dissi/e.

Io rabbrividii. - Non abbiamo nulla... Nessun programma d'intrusione... Oppure pensi che ci facciano entrare per simpatia?

- Jonny... Sei tu i nostri programmi... Comincia a suonare qualcosa che ci faccia muovere più velocemente. Prova.

Io selezionai un tamburino e registrai in traccia una marcetta, a cui sovrapposi un paio di corni francesi ed un pizzicato; cominciammo a muoverci, o meglio, a nuotare. Io/Etan ci tuffammo a capofitto in quel mare digitale, assorbiti dalle fosforescenze ammiccanti delle utenze, delle Icone. Transitammo accanto alle cupole/serra che contenevano giardini d'incontro, superando le torri nere delle babelteche, o le strutture a forma di polmoni che servivano ad accumulare dati, sospese come idoli tra i collegamenti delle varie vene.

Il mare amniotico era luminoso, invitante, sconfinato; vidi lunghi vermi di mille colori che si muovevano trasportando dati e passeggeri da un sito all'altro, e tutto in un apparente silenzio, solo apparente perché il caos di luci generava un senso di affollamento dei sensi in cui nessuno era escluso.

Il nostro moto era fluido, e se io rallentavo la mia musica, anch'esso si attardava, per poi velocizzarsi al ritmo da me imposto.

- Ci siamo.

La banca era un palazzo bianco, ed il suo Centro di Visualizzazione si preoccupò di vestire la nostra sagoma nuda con pantaloni, camicia e cravatta, prima che ci accostassimo. L'illusione amniotica era del tutto reale e fu come se fossimo entrati davvero nell'atrio della NK Forsamle Bank, sovraffollata di persone.

- Piano? - Domandai mentalmente ad Etan, ora che avevo terminato la mia musica.

- Dichiariamo di voler fare un deposito, ci facciamo portare alle casse. Poi tu le distruggi. Faccio cambiare il numero di conto e filiamo via.

- Con "cosa", le distruggo?

- Pensaci tu.

Io cominciai a selezionare tamburi e gong, componendo mentalmente un motivo wagneriano.

- Guarda, Jonny... - Mi disse Etan, ed io osserva la sala della banca, nella quale ci si stava avvicinando l'uomo vestito di verde dal quale avevamo comprato le apparecchiature. Lo riconobbi perché sembrava essere l'unico cliente della banca a non essere virtualmente rivestito da camicia e cravatta: aveva la tunica verde con la quale lo avevo incontrato la prima volta. Me lo ricordo bene, quel bastardo, ed allora non sapevo che i nostri computer creassero nei sistemi virus indelebili, né mi aspettavo il mostro. Ma se devo essere sincero, devo dire che quell'uomo non mi piaceva, perché lo incontrammo lì alla banca, e poi ancora almeno altre tre volte. Come faceva a sapere dove noi avremmo fatto il colpo?

Non lo so, forse glielo diceva Kay.

Comunque ci salutò, nel suo abito verde, poi si dileguò tra la folla. Puff. Sparì. Noi proseguimmo con il nostro piano, parlammo con un distinto signore che ci fece da guida e scendemmo nelle sale delle casseforti come normali clienti, e lì feci partire la mia musica distruttiva.

Le pareti del locale si riempirono di bug, formattate dai miei suoni più velocemente di quanto la procedura di auto-creazione riuscisse a ripristinarle. Gli impiegati si distorsero, ingobbendosi, dilatandosi come corpi schiacciati da violente pressioni. Etan si mosse velocemente, mentre le note della mia cavalcata di valchirie si susseguivano sempre più veloci e frenetiche. Non riuscivo a seguire cosa Etan stesse facendo, tanto ero concentrato sulla mia composizione.

Vidi apparire le prime Contromisure, tozzi droidi di sicurezza che probabilmente avevano l'ordine di eliminarci. Scelsi un hard-flute e sparai una serpentina di note ascendenti rapidissima, tenendo sempre sotto controllo la sinfonia di distruzione. Nell'aria si materializzò una spirale d'energia viola, che si avvolse attorno al braccio di io/Etan e saettò a colpire un droide, annullandolo in uno scoppio privo di esplosione.

- Tempo! Ho bisogno ancora di qualche secondo! - Mi gridò Etan.

Intorno a noi l'ambiente stava lottando per ricostruirsi, e l'aggiornamento di sistema stava avendo la meglio: i muri riprendevano consistenza, e così pure le persone. Il droide rimasto sparò nella nostra direzione.

Io fermai la cavalcata, facendo ripartire al contrario la musica di velocità che avevo composto in esterno, amplificata su tutti e trentadue i canali, e lo scorrere del tempo intorno a noi rallentò di colpo, così come tutti i nostri movimenti.

- Jonny! Sono paralizzato!-

Avevo bisogno di pensare. Il colpo del droide e tutto l'ecosistema della banca avrebbero distrutto il mio suono di lentezza entro pochi secondi, ed il colpo era ancora diretto su di me/noi. Selezionai uno strumento di vento e suonai un accordo maggiore a nove note, appena in tempo: il tutto ricominciò a procedere a velocità normale, ma il vento provocò una deflessione della scarica del droide di qualche grado, tanto che ci saettò a pochi centimetri dal capo, disperdendosi.

Lanciai un'altra scarica di hard-flute, e notai con terrore che tutto l'ambiente si stava ricreando, punto per punto, pattern per pattern. Altri droidi si materializzarono dal nulla.

- Fatto!- Mi gridò Etan. - Andiamo via!-

Qualcuno sparò, ed il corpo mio e di Etan si inarcò in una piroetta all'indietro, per schivarlo.

- Via, Jonny! Andiamo via!-

Io non sapevo cosa fare, ero sovrastato dalla realtà in cui eravamo immersi: le mie dita erano immobili sulla tastiera, il mio cervello paralizzato.

Poi vi fu un ciclone, o qualcosa di simile. Vidi sibilare decine di migliaia di luci, e fui afferrato e strappato via come un fruscello. La sensazione fu reale, e quando mi svegliai, poco dopo, sentivo ancora tutte le costole indolenzite. Giacevo a terra, coperto di sudore, e Kay mi stava schiaffeggiando il viso. Cercai di tirarmi su. Avevo la vista annebbiata.

Etan era in piedi, in un accappatoio blu: mi stava guardando con apprensione. E rabbia.

- Che è successo? - Domandai.

- Kay ci ha tirato fuori da là, - disse Etan - Tu eri completamente fermo, lo sai?

- Scusa, Etan, io...

Etan imprecò e fu Kay a calmarlo. Disse che non era colpa mia. Era la prima volta ed ero andato fin troppo bene. Era una simulazione, dopotutto. Etan sembrò ascoltarla, mi si avvicinò e mi tirò su. Avevo male a tutto il corpo, alla cassa toracica, alla nuca ed ai testicoli.

- Non era una simulazione, Jonny. - Mi disse. - Abbiamo preso qualche milione di crediti.

Io tossii, ripresi i miei vestiti ed uscii dalla camera.

- Non farti più, prima di un colpo. - Disse una voce alle mie spalle, o forse era la mia fottutissima coscienza.

Non ci fermammo, questo è evidente. Ma non penso che le interessi sapere cosa facemmo. Io cominciai a memorizzare decine di sequenze musicale, da quella di velocità a muri illusori, da scariche di energia a virus di sistema. Andava meglio: i piani erano sempre più accurati, i colpi più veloci.

Una settimana dopo eravamo pronti per il nuovo colpo. Entrammo in Madre dirigendoci ad una centralina che controllava i traffici su monorotaie, e con una serie di poderosi accordi ne prendemmo possesso. Poi dirottammo un intero convoglio robotico su un ramo morto, dove il treno e tutto quello che conteneva si schiantarono contro il fianco di una montagna. Il fatto è che conteneva lingotti d'oro, che non risentirono molto dello scontro. Ci fu sufficiente andare là e raccoglierli, come si va a raccogliere le castagne.

Poi restammo buoni per un mesetto. Una sera di quel mese mi feci anche Kay, ma questo non le può interessare. Volevo farla stare male, perché era la compagna di Etan. Ma andai piuttosto bene, per essere uno che se ne frega di fottere ogni sera. Mi accorsi che Kay doveva aver capito qualcosa, di me, e penso che avesse cominciato ad odiarmi. Quanti soldi! Potevo avere ciò che desideravo, anche se Etan continuava a ripetermi di non spendere troppo, per non attirarmi addosso qualche fottutissimo poliziotto.

Kay dovette salvarci il culo, una sola volta. Non so come fosse andata, fu... fu dopo qualche anno. Qualcuno fece una soffiata alla polizia di dipartimento, proprio in una sera in cui volevamo entrare negli X-files della Chiesa di NK per cambiare un po' i sermoni automatici dei diffusori domenicali, e... arraffare qualche cosa d'altro, ad esempio i quintali di denaro ammassati nella sacrestia in pagamento della droga. Io ed Etan eravamo già in Madre e... Sa cosa mi ricordo adesso? Proprio quella sera incontrammo quel bastardo di ricettatore verde. Era seduto in una specie di polmone scuro, nella Madre, e fluttuò intorno alla Chiesa, secondo Etan senza averci individuato. Palle. Voleva controllare che il nostro bel computer sparpagliasse Virus come una prostituta malata. Già... Comunque Kay ci succhiò via come aveva fatto la prima volta, e quando tornammo vivi la sentimmo urlare che la polizia aveva circondato il palazzo.

Etan, stravolto per il risucchio (non è un'operazione sicura), barcollò fino ad un mobile, dentro il quale aveva nascosto quattro fucili tozzi, quattro Greymauser a canne mozze.

- Facciamo a pezzi tutto, ragazzi. Prima che lo trovino. - Ci passò un fucile. - Poi ognuno per sé. Siete liberi di sputtanare tutto il piano, se vi fanno del male. Se invece vi salvate, ci vediamo tra due giorni, davanti al check-in numero quattro, alle venti. Portate una valigia: ci trasferiamo. - Raccolse dai deck alcuni programmi, il suo chip di trasmutazione, poi ci fece un segno: facemmo fuoco sull'intera nostra attrezzatura, facendola esplodere come una torta di nozze presa a pugni. Fu una cosa dolorosissima. Avevo salvato i miei componimenti, sì, ma sparare e distruggere la mia tastiera fu una vera tortura... Ricordo i tasti bianchi che volavano per la stanza come petali di una pianta abbattuta. Già. Tremendo.

Le interessa sapere come ne uscii? No? Meglio per me: uscii dai tetti, dopo essermi nascosto come un verme. La polizia sfondò la porta del nostro covo, li sentì imprecare, poi entrarono nelle stanze di altri condomini, mettendo all'aria tutto e facendo il classico casino che fanno i poliziotti quando non trovano niente, ma hanno un pezzo di carta che permetta loro di far casino. Comunque non uccisi nessuno. Gli agenti non cercavano me, né Kay. E forse nemmeno Etan. Cercavano qualcuno con la faccia di un colpevole, e penso che tra tutti gli inquilini qualcuno lo abbiano pescato. Ad esempio il custode.

Passai due notti da incubo, nascondendomi in un alberghetto talmente economico che se avessi voluto avrei potuto comprare tutto e sostituirlo con una fabbrica di giocattoli. Pensavo che Etan fosse morto, ed arrivai a giurare che se non l'avessi più incontrato mi sarei suicidato. Suicidato con una montagna di soldi: potevo inghiottire le monetine e soffocarmi.

Ah, non gliel'ho detto: avevo cominciato a fumare roba pesante, perché avevo i soldi.

Quando mi presentai al check-in numero quattro, due giorni dopo, lo trovai. Sembrava il solito Etan: tranquillo, imperturbabile, distaccato.

- Kay è morta, Jonny.- Mi disse. - L'hanno presa ed è morta in carcere. Siamo rimasti in due.

- Dove andiamo? - Gli chiesi, guardando a terra, e ricordandomi che avevo sentito una donna urlare, e che forse poteva essere Kay, Kay che non aveva cantato e che era morta in carcere. Che non avevo nemmeno provato a salvare. Mi sentivo l'ultimo delle merde.

- Su Cittàenea. - Mi rispose Etan. - Entriamo negli archivi della Hierarchia.

- Perché? - gli domandai, ma sapevo che voleva vendicarsi del fallimento dell'incursione nella Chiesa di New Kobenhavn.

- Ci pagano una somma enorme, se laggiù riusciamo a prendere Dio, Jonny. É l'unica cosa che ci manca. - Mi rispose invece lui, serissimo.

Lo sa che scoppiai a ridere?

Nella Hierarchia nessuno sa cosa si trovi. I più suppongono che non esista nulla, ma Etan aveva alcune carte che erano state registrate durante l'incursione. Secondo lui nel feto della Hierarchia di Cittàenea, proprio nel centro, doveva esserci il più grande capitale economico di tutti i tempi. Mi snocciolò dati, cifre, nomi e cognomi: ho dimenticato tutto.

Prendemmo alloggio in una periferia di studenti di Teologia, in uno squallido solaio. Ordinammo ciò che ci serviva da diversi ricettatori, e poco per volta ricostruimmo tutto ciò che avevamo lasciato a New Kobenhavn. Etan rimase per giorni di fronte ai monitor, sorseggiando caffè nero come petrolio, fino a quando riuscì a realizzare un programma di risucchio che entrambi avremmo potuto azionare rimanendo in Madre.

- É più lento di Kay. - Mi spiegò. - Ma è più sicuro di contattare uno nuovo per sostituirla.

Kay mi mancava. Sarà perché avevamo lavorato assieme per più di due anni, sarà perché in due le giornate erano troppo vuote, silenziose. Io entrai in Madre da solo, come un comune Pellegrino, vagando per il Giardino d'Inverno, un'immensa serra artificiale che presentava otto entrate, ed aveva forma di quadrato, nel quale camminavano tutti gli altri utenti. Il Giardino era luogo di incontro in cui tutti i teologi venivano vestiti di tonache scure ed avevano la possibilità di parlare tra di loro. Una di queste anime, raffigurata come un vecchietto dall'aspetto arzillo, mi condusse a visitare le varie parti del giardino, spiegandomi i nomi di coloro che erano ritratti dalle statue ed indicandomi i personaggi importanti con cui ci imbattevamo. Mi condusse fino all'Ulam, una distesa marina interna (ed esterna) al Giardino d'Inverno.

- Vedi, figliolo... Questo è Ulam, il grande mare che porta fino ad Hekal, il secondo livello della Chiesa. Erano i nomi del vestibolo e del santuario del grande Tempio costruito sul nostro pianeta da un re chiamato Salomone... Al di là dell'Hekal vi è l'Oscuro Santissimo, il Debir, il vero cuore della Hierarchia. Ma nessuno può andare in Ulam, se non è invitato. Nessuno.

E stupidamente mi sforzai di guardare al di là di quel mare virtuale all'interno del Mare della Grande Madre, per scorgere qualcosa, magari una montagna...

Passò un mese, e giunse il quarantaduesimo. Etan scoprì finalmente il passaggio che dal Giardino d'Inverno conduceva all'Ulam: era una nona entrata, completamente invisibile dall'interno della serra.

- Passeremo di qui, e poi nell'Ulam. Vedremo cosa c'è da nascondere nell'Hekal e poi nel Tempio.

Ci preparammo, per poi entrare. La sensazione, per me, fu meravigliosa. Il palazzo della Hierarchia mi apparve come un giocattolo nero, e la serra del Giardino d'Inverno come un grande gioiello rotto. Etan si accoccolò su se stesso, poi volteggiò, mentre io suonavo un adagio di protezione. Svelò la nona porta, ed attraverso essa tagliammo in diagonale il Giardino e ci avventurammo nell'Ulam.

L'oceano aveva onde silenziose, e l'aspetto "oceano dentro l'oceano" dava senso di vertigine. Vedemmo più volte affiorare dalle onde le sagome immense di esseri marini di dimensioni spaventose, ed uno particolare sembrò vederci, nonostante le mie melodie di mimesi. - É il Leviatano. - Mi disse Etan, ma io non capii. L'essere si inabissò, sollevando un'ondata immensa, e tagliando la spuma di quelle creste di non-acqua. Finalmente, io/Etan raggiungemmo un' isola, e scendemmo su essa. Era Hekal, il Santuario.

Camminammo su quel terreno virtuale, e più di una volta dovetti cambiare melodia per farci passare inosservati. - Non possiamo più fare ritorno. - Mormorai, ed Etan annuì. La terraferma era un bosco abitato da creature strane, tutte segnate in viso con un tatuaggio che sembrava un numero. Vagavano per il bosco senza motivo, e solo la mia più folle composizione ci permise di arrivare alle pendici di un monte. Sembrava che fossimo lì dentro da giorni.

- Questo è il monte Sion, sul quale sorge il Tempio, Urushalim o Gerusalemme. Ma dobbiamo arrivarci dal cielo, il Debir, l'Oscuro Santissimo. - Disse Etan. Già allora mi accorsi che qualcosa, in lui, non funzionava. Stava parlando come in trance e ciò che aveva detto non aveva alcun senso. Nessuno. Sa cosa era successo? Etan era divorato dal virus. Ed il virus lo faceva parlare così.

Tuttavia io ero più spaventato che vivo, e suonai una musica di volo, che ci fece alzare nel cielo.

E qui tutto finì.

Quello in cui ci trovavamo era un Mandala (1), un labirinto geometrico della Madre che sembra fatti di vetri trasparenti, che non "senti" se prima non ci sbatti contro; era una Mandala che aveva come centro il monte. Così penso, ma non ne sono sicuro. Lo disse Etan, prima che la Bestia uscisse.

La Bestia, signore mio. La più grande che potete immaginare. Avevamo appena lasciato la terra, per salire nel cielo, quando la Bestia si sollevò alle nostre spalle.

Dal mare, si alzò come un colosso: aveva almeno sette teste ed altrettante corna, non rammento, e alle corna erano appesi simboli e collane. Si levò come una pantera colossale, con le fauci da leone, spalancate. Le sue zampe erano massicce, e sembravano quelle di un altro animale, non di una pantera. Calcò la terraferma, schiacciando le anime che abitavano il bosco e si avvicinò a me/Etan. Io non sapevo cosa fare, e lui stava zitto, sospeso nel Debir. La Bestia si avvicinò, come la più colossale contromisura di sistema che avessi mai visto, e potei sentirne il fiato pesante avvolgere la nostra proiezione.

Scelsi i miei motivi più distruttivi e glieli scagliai contro, in un'esplosione di non-materia. La Bestia del mare urlò, ed anche Etan. Attaccai in ogni direzione, e vidi le pendici del Sion aprirsi in squarci profondi, e le foreste di Hekal avvampare come colpita da un'unica spada fiammeggiante. La Bestia si rialzò, se mai era caduta, e parlò.

Non so cosa disse, perché era una lingua non pronunciabile e non udibile, ma ogni sua lettera era una cascata di annullamento, di distruzione, come polvere di metallo che raschi sulle gengive. Eppure, in qualche modo, era suadente, e mi accorsi che Etan ne era stato attratto. Lo protessi creando una sfera di silenzio con un suono subsonico looppato a grandissima velocità, ma era come se fosse assente.

- Etan! - Provai a chiamarlo. - Andiamo via! Non è possibile entrare nell'Oscuro Santissimo!! Sono troppo forti, per noi!!

- Il drago... - Mormorò lui, restando fermo di fronte alla gigantesca Bestia distruttrice. - Non nella Hierarchia... É dentro di noi.

Aveva ragione. Il tessuto virtuale della grande Bestia, negli estremi in cui era in contatto con l'ambiente dell'Hekal, sfarfallava, perdendo consistenza, e laddove Lei era passata erano rimaste enormi voragini di dati, nelle quali affluiva l'Amnio esterno, come liquido in una vasca: la stessa Icona della Hierarchia era divorata da quel mostro. Fummo scagliati all'indietro, verso il monte, ed avvertii centinaia di movimenti provenire dal basso, e vidi piccole persone, preti, che gridavano. - VIRUS! VIRUS!

Quel demone era forse un virus?

- Andiamo via! - Urlai ed azionai il programma di risucchio. Non successe nulla: la mente di Etan non voleva essere portata via. - Etan!!

- Non adesso...- Rantolò lui. - Fuggi tu, se vuoi!

- Io non ti lascio! - Gridai, mentre le mie dita, inconsciamente, suonavano scale di note vertiginose, esplosioni che si concretizzavano in barriere e scoppi. - Non ti lascio qui!

Ora stia a sentire, prete. A questo punto io cercai la mente di Etan, suonando, cercai la sua mente per convincerlo a fuggire. La trovai, e quasi svenni. La mente di Etan era sconfinata, immensa. Fui travolto dalle sue conoscenze come da un fiume, e seppi che anche lui ne era atterrito quanto me. Non so come le avesse accumulate, o se quello non fosse altro che un aspetto del cancro informatico che ci trascinavamo dietro, destinato ad esplodere nella Hierarchia. La mente di Etan era stata dilatata fino a creare quel suo incubo, proprio accanto a noi.

Sentii un colpo fortissimo, e seppi che il mostro ci aveva nuovamente attaccati.

- Etan! - Dissi, con un filo di voce, e lo rividi ancora, bellissimo, distaccato. Poi tutto vorticò, vidi la mano alzata in un saluto, un tavolo operatorio, e poi tutto si disfece, scomponendosi in tasselli bui, e fui fuori.

Etan era morto per sempre, ed io non avevo più le mie braccia.

Così, se vuole, finisce la mia storia di uomo libero. E così finisce Jonny Gellesbee. Svenni ancora, forse morii, ma mi ritrovai in rianimazione su questo ospedale orbitante, con due moncherini al posto delle braccia. E tutto grazie a quel ricettatore. Fine della storia, signor mio.

Note.

La testimonianza di Sören non termina qui, ma questa è la parte più significativa. Ora è rinchiuso nell'Ospedale di Cittàenea. Ammette la sua incursione e continua ad affermare la sua versione dei fatti. L'Icona della Hierarchia è effettivamente stata attaccata, ed ora è chiusa. Sembra che un potente Virus l'abbia in parte danneggiata. Sören non suonerà mai più. Etan è stato trovato nella Vasca Umorale, completamente carbonizzato. Il suo chip è inutilizzabile e rimarrà il segreto di dove se lo fosse procurato. Sono sicuro che a mandare la polizia, su New Kobenhavn, sia stato il ricettatore verde, come sono sicuro che sia stato lui a creare il Virus che ha poi generato il mostro descritto con abbondanza di fantasia dal povero musicista. Sono anche convinto che l'omicidio sia connesso con i tentativi di entrare nell'Icona della Chiesa prima e di Cittàenea poi. Devo ancora trovare corrispondenze per i nomi Ulam, Hekal e Debir che vadano oltre alle informazioni di 3 Shamaijim: secondo queste i nomi di cui sopra rappresentano le partizioni nelle quali era suddiviso il Tempio di Gerusalemme. Il follicolo della Hierarchia, ovviamente, ha mantenuto gli antichi nomi, ammantandoli di nuovo. Cosa farebbe la Chiesa, se non potesse cambiarsi spesso di abito!

(1) C.G.Jung sostiene che il mandala sia un simbolo di immersione, dell'introversione in fasi caotiche, che portano a espressione di un'idea del nucleo essenziale dell'anima e della sua intima conciliazione con la totalità. Fisicamente è un labirinto.

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