L'opera di Oliver Sacks è per certi versi difficile da incasellare: i suoi casi clinici e le monografie su disturbi neurologici si muovono sempre sul confine tra la narrativa e la saggistica; alla minuziosa descrizione di malattie, ossessioni o peculiarità neurologiche, si affiancano storie e personaggi romanzeschi; realtà e finzione si intrecciano, come quando si cerca di stabilire, tra il serio e il faceto, se Sherlock Holmes fosse affetto da sindrome di Asperger, e al tempo stesso non è possibile dubitare dell'esistenza dei personaggi più strambi che sembrerebbero usciti dalla fantasia di un romanziere, ma le cui tracce sono facilmente verificabili su internet.

In questo continuo rimando a opere di fantasia, non mancano i riferimenti alla fantascienza: il titolo stesso di una delle sue opere più celebri è un omaggio al nostro amato genere: Un antropologo su Marte.

Sacks non fa mistero del suo interesse per la fantascienza, come quando rivela che una sua paziente condivide con lui la passione per Star Trek, o accenna ai disturbi di Philip Dick, o ancora fa riferimento alle opere di maestri della SF come H.G. Welles o A.C. Clarke.

Si pensi all'incipit di Musicofilia:

È proprio strano vedere un'intera specie – miliardi di persone – ascoltare combinazioni di note prive di significato e giocare con esse: miliardi di persone che dedicano buona parte del loro tempo a quella che chiamano «musica», lasciando che essa occupi completamente i loro pensieri. Questo, se non altro, era un aspetto degli esseri umani che sconcertava i Superni, gli alieni dall'intelletto superiore descritti da Arthur C. Clarke nel romanzo Le guide del tramonto. Spinti dalla curiosità, essi scendono sulla Terra per assistere a un concerto, ascoltano educatamente e alla fine si congratulano con il compositore per la sua «grande creatività» – sebbene per loro l'intera faccenda rimanga incomprensibile. Questi alieni non riescono a concepire che cosa accada negli esseri umani quando fanno o ascoltano musica, perché in loro non accade proprio nulla: in quanto specie, sono creature senza musica.

Nel contesto di opere spesso diverse, che assumono ora l'aspetto di saggi monografici (Emicrania), ora di antologie di racconti (L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello; Sette racconti paradossali è il sottotitolo di Un antropologo su Marte) e a volte persino di un diario personale, la fantascienza fa spesso capolino proprio quando Sacks è il protagonista della vicenda: ad esempio quando nel racconto diaristico La persistenza della visione (ne L'occhio della mente) a causa di un melanoma oculare, il medico, diventato paziente è soggetto a distorsioni visive che gli fanno apparire le figure umane come i Seleniti descritti da Welles, o uno stormo di uccelli scompare dal suo campo visivo «occultato come le navi da guerra dei Klingon».

Si direbbe che la fantascienza si ricolleghi agli aspetti più personali di Oliver Sacks, quel lato curioso ed enciclopedico che traspare da tutti i suoi libri. E rimanda anche a ricordi giovanili (in fondo la maggior parte delle citazioni ci riportano ai classici del genere, che Sacks doveva aver letto e visto da ragazzo).

Ma anche gli scrittori di fantascienza sembrano ricambiare questo amore. Mi vengono in mente almeno due esempi evidenti: il romanzo Lock-in di John Scalzi (che in Italia abbiamo letto su Urania col titolo Chiusi dentro) e il racconto La sera, il giorno e la notte di Octavia Butler (contenuto nell'antologia Le visionarie di Ann e Jeff VanderMeer).

Il romanzo di Scalzi si apre con una premessa che ci si potrebbe benissimo aspettare da un libro di Sacks:

Sindrome di Haden è il nome dato a un insieme di condizioni mediche, fisiche e mentali, protratte nel tempo, diffuse inizialmente attraverso la Great Flu, la pandemia globale simile a un’influenza che provocò la morte di oltre quattrocento milioni di persone in tutto il mondo. I decessi avvennero sia a causa dei sintomi iniziali, simili a quelli di un’influenza, sia durante il secondo stadio, che comportava un’infiammazione cerebrale e spinale analoga alla meningite, o per complicazioni insorte al terzo stadio della malattia, che tipicamente portava alla paralisi totale del sistema nervoso volontario, con conseguente “lock-in” o “effetto chiavistello” sulle vittime. La sindrome prende il nome da Margaret Haden, ex first lady statunitense, che ne fu la vittima più celebre.

L’origine fisica della Great Flu resta ignota, ma essa venne diagnosticata per la prima volta a Londra, Inghilterra, mentre altri casi furono riscontrati immediatamente dopo a New York, Toronto, Amsterdam, Tokyo e Pechino. Il lungo periodo di incubazione prima dell’insorgere di sintomi visibili favorì un’ampia diffusione del virus, prima che venisse individuato. Di conseguenza, oltre 2,75 miliardi di persone in tutto il mondo rimasero contagiate nella prima ondata del morbo.

La progressione della malattia si manifestava in modo diverso per ogni individuo in base a vari fattori, tra cui lo stato di salute del soggetto, l’età, il corredo genetico e l’igiene ambientale relativa. Il primo stadio, simile all’influenza, fu il più diffuso e il più grave, e causò oltre il 75% dei decessi complessivi attribuibili all’Haden. Tuttavia, un’analoga percentuale delle vittime manifestò solo la prima fase della sindrome. Il secondo stadio, che colpì le restanti, si presentava con sintomi simili a quelli di una meningite virale, ma provocava anche mutazioni profonde e persistenti nella struttura cerebrale di alcune delle vittime. Pur colpendo un numero minore di persone, il secondo stadio dell’Haden registrò un tasso di mortalità più elevato.

La maggior parte dei sopravvissuti alla seconda fase non riportò disabilità fisiche o mentali a lungo termine, ma un numero significativo di essi – oltre l’1% dei contagiati iniziali dalla Great Flu – finirono paralizzati dal lock-in. Un ulteriore 0,25% riportò danni alle capacità mentali dovuti alle alterazioni della struttura cerebrale, ma senza alcun deterioramento nelle capacità fisiche. Un numero ancora più esiguo di individui – non più di 100.000 in tutto il mondo – non subì alcun degrado fisico né mentale, malgrado le modifiche consistenti alla struttura cerebrale. Alcuni degli appartenenti a quest’ultima categoria sarebbero poi divenuti “Integratori”.

Confrontialmola con alcune pagine di Risvegli, opera fondamentale per la comprensione dello stato di lock-in:

Sebbene nel passato ci fossero state innumerevoli epidemie di modesta entità, inclusa quella londinese del 1672-73, non vi fu mai una pandemia globale paragonabile a quella che ebbe inizio nel 1916-17. Durante i dieci anni in cui imperversò, essa tolse o devastò la vita a quasi cinque milioni di persone, per poi scomparire, altrettanto misteriosamente e improvvisamente come era arrivata, nel 1927. Un terzo delle persone colpite morì negli stadi acuti della malattia, in stato di coma così profondo da escludere possibilità di risveglio, o in stato di insonnia così ribelle da escludere possibilità di sedazione. I pazienti che subirono ma superarono un attacco estremamente grave di sonnolenza o insonnia di questo genere, in molti casi non recuperarono la normale vitalità. Erano coscienti e consapevoli, e tuttavia non erano completamente svegli; passavano le giornate seduti, immobili e silenziosi, totalmente privi di energia, di slancio, iniziativa, motivazioni, appetiti, affetti o desideri; percepivano ciò che accadeva attorno a loro senza un’attenzione attiva, ma anzi con profonda indifferenza. Non ispiravano né provavano vitalità alcuna; erano privi di sostanza come fantasmi e passivi come zombie: von Economo li paragonava a vulcani spenti. Questi malati, in linguaggio neurologico, presentavano disturbi «negativi» del comportamento, cioè inerzia assoluta. Erano ontologicamente morti, o «sospesi» o «addormentati», in attesa di un risveglio che giunse (per la piccola frazione di sopravvissuti) cinquant’anni dopo.

Il racconto di Octavia Butler descrive invece la malattia di Durye-Gode (immaginata sulla base di studi compiuti dall'autrice su tre malattie esistenti, la malattia di Huntington, la Frenilchetonuria e la sindrme di Lesch-Nyahm) che provoca un senso di estraneità dal proprio corpo e l'impulso all'automutilazione: impossibile non pensare alla « disincarnata » dell'omonimo racconto nell'Uomo che scambiò sua moglie per un cappello, e l'andamento stesso del racconto della Butler del resto fa pensare a un caso Sacks: nella bibliografia del racconto, del resto, troviamo Un antropologo su Marte e L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello.

Ma l'interesse che suscita Sacks nel lettore di fantascienza non sta tanto nei rimandi ad alcuni classici del genere, né dipende dall'ispirazione che il grande neurologo-narratore ha fornito ad alcuni scrittori.

Credo che il suo fascino sia legato a qualcosa di più profondo, che va ricercato nell'approccio stesso del medico verso i casi che descrive.

Cosa vuol dire infatti la metafora dell'antropologo su Marte che dà il titolo ai suoi racconti paradossali? Inizialmente l'immagine è evocata non da Sacks, ma da una scienziata autistica per descrivere sé stessa: una donna che, per quanto si sforzi di costruirsi una vita sociale, non è in grado di comprendere la maggior parte delle emozioni e reazioni umane più sottili.

«Riesco a immedesimarmi bene in Data» mi rivelò mentre ci allontanavamo in auto dall'allevamento.

Temple (come me, del resto) è un'appassionata di Star Trek, e il suo personaggio preferito è Data, un androide privo di emozioni ma con una grande curiosità verso gli esseri umani e un gran desiderio di umanità. Egli osserva meticolosamente il comportamento umano, a volte lo imita, ma soprattutto bramerebbe di essere umano. È sorprendente il numero di persone autistiche che si identificano con Data – o con il suo predecessore, il signor Spock.

Dunque l'autistico ad alto funzionamento è simile a un antropologo che osserva e cerca di comprendere una cultura aliena. Ma più avanti è lo stesso Sacks a paragonarsi all'antropologo alle prese con un mondo altrettanto alieno, quello dell'autismo (e si potrebbe dire lo stesso per molti altri disturbi di cui ci racconta).

Non è forse questo atteggiamento, che Sacks definisce la sua «scienza romantica» ad avvicinarlo alla fantascienza?

L'interesse per mondi e culture aliene, che siano su un altro pianeta o nelle nostre teste, il confronto con quella che riteniamo la «normalità» (spesso il termine è, non a caso, virgolettato) alla ricerca di ciò che è fondamentalmente umano, fanno di Sacks il perfetto scrittore di fantascienza: l'unica differenza è che i casi di cui parla, il più delle volte, sono reali. Ma è davvero così importante?