Nel 1982, John Ellis, studioso di televisione e oggi docente di media arts presso la Royal Holloway University di Londra, nel suo saggio Seeing Things divideva la storia della televisione in tre ere: l’era della scarsità, caratterizzata da pochi canali televisivi che trasmettevano solo per poche ore al giorno, durata nella maggior parte del mondo fino alla fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. Seguiva l’era della disponibilità, con molti canali che trasmettevano continuamente e si contendevano l’attenzione degli spettatori. A questa sarebbe seguita un’era dell’abbondanza, in cui, in maniera alquanto profetica, Ellis annunciava che i programmi televisivi sarebbero stati disponibili attraverso “una varietà di tecnologie, la somma delle quali darà ai consumatori il nuovo fenomeno della ‘televisione su richiesta’ come pure della ‘televisione interattiva’”. In una nuova edizione del saggio, pubblicata nel 2000, il titolo è stato modificato in Seeing Things: Television in the Age of Uncertainty: l’era dell’abbondanza sì, ma anche l’era dell’incertezza. L’incertezza di cui parla Ellis è vista principalmente dal punto di vista di chi fa televisione, non tanto di chi ne usufruisce, in uno scenario in cui si sgretolano concetti radicati da decenni come quello di palinsesto, fasce orarie, slot… Sono passati ormai quasi altri vent’anni, ma le intuizioni di Ellis appaiono ancora valide. Viviamo senza dubbio in un’era dell’abbondanza della serialità televisiva, ma anche con una certa dose di incertezza su quali possano essere gli scenari futuri. E in questa incertezza cerchiamo innanzi tutto di fare un po’ di ordine.

Credo possa ritenersi ormai scontato che il concetto stesso di televisione sia ormai da rimpiazzare con quello di semplice “display” o schermo. Che sia un televisore, un computer, un portatile, un tablet o uno smartphone, ormai influisce solo sulle dimensioni e sulla mobilità dello schermo stesso: i contenuti possono essere fruiti indifferentemente su uno qualsiasi di questi dispositivi. Anche se questo non è ancora vero al 100% almeno in Italia (non tutti i canali televisivi presenti sul digitale terrestre hanno la loro App), è così per i broadcaster principali ed è facile intuire che in futuro sarà così davvero per tutti. Il secondo concetto che sta crollando è appunto quello di palinsesto, anche se i così detti canali televisivi “lineari” non hanno ancora perso il loro predominio, almeno in Italia. Grazie allo streaming via Internet la TV on demand ormai è una realtà da diversi anni, ed è l’utente a scegliere quale contenuto vedere e quando vederlo. Su questo punto è necessario fare alcune precisazioni, anche per capire quali possono essere gli scenari futuri: innanzi tutto esistono tutta una serie di tipologie di programmi che per loro natura sono legati a determinati orari e quindi rientreranno sempre in una logica di programmazione, come gli eventi sportivi in diretta (tuttora la tipologia di programmi con l’audience più vasta in assoluto) e in misura minore i notiziari. Una seconda categoria di programmi, pur non avendo intrinsecamente una natura di diretta TV, si presta a una visione contemporanea da parte del pubblico, come i talent show (ad esempio X Factor) o i dibattiti politici. La necessità di contemporaneità è accentuata dall’usanza ormai comune di commentare in diretta con gli altri utenti quanto si sta vedendo, attraverso quelli che vengono definiti gli “schermi secondari”. Questo è possibile (e di fatto avviene) anche con un servizio di streaming, a patto che il pubblico sia in qualche modo sincronizzato nella visione (ad esempio al momento del rilascio del contenuto), ma continua a essere un fenomeno predominante dei programmi che seguono la classica messa in onda. Il terzo punto da tenere in considerazione è che esiste una larga fascia di spettatori che fruisce del prodotto televisivo, o comunque lo seleziona, facendo “zapping”, ovvero guardando pochi minuti di più programmi, finché non trova qualcosa che ritiene soddisfacente (oppure finché non decide di smettere). Con grande frustrazione di chi si occupa di brand, vista la vastità dell’offerta attuale, accade spesso che lo spettatore non sia neanche consapevole del canale sul quale è sintonizzato. Anche questo fenomeno sarebbe replicabile in un servizio in streaming, ma di fatto non avviene: la fruizione dei prodotti in streaming è molto più consapevole e spesso pre-selezionata in precedenza in base ad altri criteri (recensioni, suggerimenti di amici, etc…). In effetti, con poco sforzo, le piattaforme di streaming potrebbero affiancare la loro offerta con dei canali nei quali gli stessi contenuti sono organizzati sotto forma di palinsesto, proprio per intercettare gli indecisi, ma al momento i diritti televisivi vengono tenuti ben separati tra servizi on demand e TV lineare, per cui le piattaforme dovrebbero acquistare dei diritti aggiuntivi per gli stessi contenuti. Naturalmente il problema non si pone per tutti quei prodotti realizzati appositamente dalle piattaforme stesse, per cui ad esempio Netflix potrebbe già avere un suo canale di produzioni originali.

Il viaggio continua...
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Chiariti i limiti della TV in streaming vediamo quali sono le tipologie: esistono servizi che si affiancano a dei canali televisivi tradizionali proponendo sia quanto andato in onda che contenuti aggiuntivi, come RaiPlay per canali Rai o Mediaset Play per i canali Mediaset, o ancora NOW TV per i canali Sky o Infinity per i canali a pagamento di Mediaset. Esistono poi servizi che offrono solo programmi in streaming, come la già citata Netflix. Possono essere gratuiti, come VVVVID, o a pagamento come Amazon Prime Video e TIMvision, sia con una forma di abbonamento, sia con la possibilità di acquistare o noleggiare il singolo prodotto (come Chili TV o Rakuten TV).

E giungiamo quindi a quello che è il focus della nostra attenzione, ovvero il prodotto seriale (il termine “serie televisiva” per quanto detto ormai non si presta più bene), in particolare quello di fantascienza. Anche in questo caso, per capire meglio gli impatti dello streaming è necessario adottare una prospettiva storica. Negli ultimi decenni c’è stato un profondo cambiamento nella narrazione televisiva, che si è spostata da uno sviluppo verticale (con trame che si concludono nell’arco di un episodio) a uno sviluppo orizzontale (con trame portate avanti per intere stagioni o anche per tutta la serie). Nel campo della fantascienza televisiva, la serie che può essere considerata uno spartiacque per questo cambiamento è Babylon 5 (1993-1998) di J. Michael Straczynski. Babylon 5 non è certo il primo caso in assoluto, ad esempio quasi tutte le produzioni fantascientifiche televisive giapponesi hanno sempre avuto uno sviluppo parzialmente orizzontale fin dalle origini, ma effettivamente Straczynski è stato il primo a progettare una storia di così ampio respiro, sviluppata nel corso di più stagioni. In questi ultimi anni la trama orizzontale, almeno per i drama nei quali rientrano quasi tutte le produzioni fantascientifiche, è senz’altro la più diffusa. Le due componenti, orizzontale e verticale, in realtà coesistono sempre, ciò che cambia è il loro rapporto, per cui possiamo avere una serie a sviluppo prevalentemente orizzontale come ad esempio Stranger Things, nella quale abbiamo stagioni brevi da 8-9 episodi che narrano un’unica storia, o serie a sviluppo prevalentemente verticale, come The Orville, nelle quali ciascun episodio narra una storia a sé, ma ci sono sottotrame portate avanti nel corso di tutta la serie. Un esempio misto potrebbe essere l’ultima incarnazione di Star Trek, Discovery, che, sebbene abbia una trama orizzontale, propone anche episodi autoconclusivi o archi di episodi (ad esempio la prima stagione è nettamente divisa in due parti, guerra con i Klingon e universo dello specchio). Una serialità orizzontale si sposa bene con la TV in streaming, grazie al fenomeno del “binge watching”, ovvero la visione di più episodi di una serie consecutivamente (e non uno a settimana come era necessario fare con la messa in onda tradizionale). È importante notare che il binge watching non è nato e non è un’esclusiva della TV in streaming: grazie alla possibilità di registrare un programma, già ad esempio all’inizio degli anni 2000 gli appassionati della serie 24 (che narrava le vicende in tempo reale con 24 episodi a stagione, in ciascuno dei quali si assisteva alla vita di un’ora del protagonista) si riunivano per lunghi week-end in modo da potersi guardare un’intera stagione tutta insieme una volta terminata la messa in onda. Senza contare le lunghe nottate alle convention di fantascienza a guardare un episodio dopo l’altro di varie serie TV. Detto questo è innegabile che la TV on demand abbia favorito molto questo tipo di fruizione, sempre che il rilascio sia contemporaneo di più episodi (come avviene ad esempio per Stranger Things) e non settimanale (come per Star Trek: Discovery).

Un secondo fattore che è necessario prendere in considerazione è l’evoluzione della narrazione nel prodotto seriale. Anche in questo caso è un fenomeno in atto da decenni; ben lontana dalla TV degli esordi, il cui scopo principale era quello di divertire ed educare, il moderno prodotto televisivo (quando ben scritto) è in grado di trattare tematiche importanti e adulte, di parlare in maniera profonda di argomenti tabù come sesso, morte, religione e altro ancora, e di offrire allo spettatore personaggi complessi, ben elaborati e credibili. Come anticipato, il termine “moderno” va inteso in questo caso in chiave storica: per chi studia televisione la serie che in genere viene considerata come spartiacque per la maturità narrativa è Hill Street giorno e notte, che è andata in onda per la prima volta negli anni ’80. Questa evoluzione si è ulteriormente accentuata con lo svilupparsi negli Stati Uniti della TV via cavo; la presenza di spettatori paganti ha consentito lo sviluppo di prodotti televisivi che non dovevano necessariamente raggiungere un vastissimo pubblico per guadagnare grazie alle inserzioni pubblicitarie. E questo offriva la possibilità di creare prodotti più autoriali, più controversi e in definitiva più maturi: un esempio classico di questa seconda generazione di TV adulta è I Soprano andato in onda negli USA su HBO dal 1999 al 2007. Sul fronte fantascientifico le due produzioni che si possono annoverare tra quelle che hanno spinto ulteriormente in avanti la narrazione seriale, per complessità delle trame, temi trattati e ricchezza dei personaggi, sono il remake di Battlestar Galactica (2004-2009) andata in onda su Sci-Fi Channel e Lost (2004-20120), che però bisogna ricordare è andato in onda su una TV generalista (ABC). Non bisogna credere che la maturità narrativa sia un’esclusiva dello sviluppo orizzontale: la serie antologica inglese Black Mirror, verticale per definizione in quanto ogni episodio è una storia a sé stante, non ha nulla da invidiare in termini di maturità narrativa e temi trattati alle serie orizzontali. All’evoluzione dal punto di vista narrativo si è affiancata anche un’evoluzione tecnologica che ormai ha reso il prodotto seriale molto simile a quello cinematografico. Mentre un tempo, facendo zapping in TV, pur senza conoscere nulla di ciò che si stava guardando era abbastanza facile intuire, anche a livello inconscio, se si trattasse di un film o di una serie TV, per formato dell’inquadratura, tipologia di riprese, set e quant’altro, ormai i livelli produttivi delle serie sono molto simili a quelli del cinema.

Il terzo e ultimo fenomeno da prendere in considerazione, più recente rispetto ai precedenti, ma anche questo ormai con oltre dieci anni di vita alle spalle, è il transmedia storytelling o narrazione transmediale, ovvero la possibilità di raccontare un’unica storia attraverso diversi media: cinema, TV, fumetti, videogiochi, etc… Ben diversa dalla semplice coesistenza dello stesso universo narrativo su più media (libri e fumetti di Star Trek esistono fin dalla nascita della serie negli anni ’60), la narrazione transmediale prevede che ciascuno medium utilizzato offra al pubblico una parte diversa della stessa macro-storia, sfruttando le proprie caratteristiche intrinseche. La TV via streaming naturalmente ha fatto collassare due media un tempo ritenuti distinti: televisione e web. Se per il remake di Battlestar Galactica si parlava di webisodes o web-series (The Resistance, Razor Flashbacks, The Face of the Enemy, Blood & Chrome), i quattro Short Trek recentemente rilasciati per Star Trek: Discovery vengono chiamati appunto solo short, visto che il sistema di fruizione è lo stesso degli episodi regolari. Pur se rintracciabile anche in opere precedenti, il concetto di narrazione transmediale è stato introdotto nei primi anni 2000 e in ambito televisivo ha avuto il suo apice proprio con Lost, per la quale sono stati sviluppati una serie di Alternate Reality Game, con finti siti Internet, finti spot e indizi nascosti da scoprire on-line. In questi ultimi anni, soprattutto per le grandi saghe (Star Wars, Star Trek e simili), il concetto di narrazione transmediale, sta lasciando il posto a quello di ecosistema narrativo, ovvero un universo condiviso nel quale diversi autori narrano più storie su diversi media con alcuni punti in comune (personaggi, luoghi, eventi) e che insieme vanno a formare la macro-storia principale. Uno degli esempi più evidenti e più riusciti di questi ultimi anni è il così detto Marvel Cinematic Universe (MCU), che include fumetti, cortometraggi, serie TV (molte delle quali distribuite via streaming) e naturalmente film. Proprio in questo esempio troviamo la convergenza sempre più stretta tra narrazione cinematografica e narrazione seriale: i 20 film che ormai fanno parte di questo universo possono quasi essere considerati come episodi di una maxi serie TV (costata 4 miliardi di dollari, ma che ne ha incassati oltre 17), con delle stagioni (denominate Fase 1, Fase 2, etc…), dei protagonisti principali e dei personaggi ricorrenti, episodi più autoconclusivi, cliffhanger, episodi in due parti… insomma tutti quei meccanismi classici della serialità che fanno affezionare lo spettatore (a delle situazioni, a dei personaggi) e lo convincono a tornare episodio dopo episodio, o film dopo film (pagando un nuovo biglietto naturalmente). E mentre un tempo all’uscita di ogni nuovo film di Star Trek l’ufficio di comunicazione della Paramount assicurava il pubblico che il film poteva essere visto e goduto anche da chi non conosceva i personaggi o la saga, la Marvel ha ribaltato il problema. Se non hai visto i film precedenti rischi di perdere parti importanti della storia per cui sarai più invogliato a recuperarli.

La distribuzione di contenuti su richiesta attraverso lo streaming rappresenta senz’altro un modello che si andrà affermando sempre di più nei prossimi anni. Tutti i principali operatori, Disney, Apple, Facebook, solo per citarne alcuni, stanno lavorando per creare le loro piattaforme. Tuttavia nessuna delle tre caratteristiche prese in esame della moderna produzione seriale, sviluppo orizzontale, maturità narrativa e tecnologica, e transmedialità, è nata con la TV via streaming o ne è una sua caratteristica esclusiva. Quindi in definitiva come ha cambiato lo streaming la produzione televisiva? In realtà ha cambiato più la fruizione che la produzione. In qualche modo però ha amplificato tutti questi fenomeni già in atto. La possibilità di guardare più episodi consecutivamente ha dato un’ulteriore spinta alla trama orizzontale; il non dover rivolgersi a un pubblico generalista, ma a un pubblico selezionato e pagante ha consentito lo sviluppo di prodotti più maturi e autoriali (quali Westworld, L’uomo nell’alto castello, The Handmaid’s Tale); e la convergenza tecnologica ha reso più immediata la narrazione transmediale (possiamo fruire di un film, una serie, un fumetto e un libro senza cambiare dispositivo). Volendo individuare dei meriti esclusivi della TV in streaming si può evidenziare la possibilità di accedere a produzioni televisive di paesi diversi da quelli che tradizionalmente eravamo abituati a vedere in ambito fantascientifico, Stati Uniti, Inghilterra e in parte Giappone. La serie brasiliana 3% o quella tedesca Dark sono esempi di produzioni, che senza l’abbattimento dei costi distributivi ottenuto grazie allo streaming difficilmente sarebbero giunte in Italia. A questo fenomeno contribuiscono anche le nuove generazioni di pubblico italiano, molto più propense a usufruire di un prodotto sottotitolato rispetto ai loro predecessori, riducendo quindi i costi di localizzazione (la serie 3% ad esempio è disponibile solo in versione sottotitolata non doppiata).

Rimane da esplorare un ultimo aspetto peculiare della TV via streaming e relativo a una produzione rilasciata proprio recentemente. Probabilmente non è questo che aveva in mente John Ellis nel suo saggio quando parlava di “TV interattiva”, ma lo scorso 28 dicembre Netflix ha rilasciato un nuovo episodio della serie Black Mirror, Bandersnatch, un vero e proprio film interattivo. Anche in questo caso non siamo di fronte a un primato assoluto: brevi film interattivi a bivi sono già presenti da anni su YouTube, videogiochi che di fatto narrano una storia interattiva esistono dagli anni ’70, senza contare libri e fumetti con diverse possibili evoluzioni della storia. Tuttavia, per complessità della realizzazione e della trama, Bandersnatch rappresenta senz’altro un nuovo scalino nell’evoluzione dell’interattività in TV, in questo caso possibile esclusivamente con una tecnologia di fruizione di questo tipo. È questo il futuro della TV via streaming? L’episodio è stato ben recepito dal pubblico, ma è difficile dire se si tratta di un caso isolato o se questa diventerà una forma comune di narrazione seriale. Forse in futuro l’entertainment transmediale sarà costituito da grandi universi narrativi condivisi all’interno dei quali fruire di storie sotto forma di video (dei quali possiamo alterare il corso), testi e immagini, il tutto attraverso un unico dispositivo. Per il momento rimane da risolvere un problema molto più imminente: in mezzo a questa vastità di offerta, spesso di qualità, dove lo troviamo il tempo per vedere tutto?