Chi è nato dopo il 1962 (l’anno in cui è ambientato il serial è anche l’anno in cui il romanzo uscì e vinse il premio Hugo) o comunque dopo le guerre, è cresciuto immerso nella civiltà delle immagini. Cinema e televisione hanno provato a descrivere gli orrori del nazi-fascismo ma resta comunque un senso di rimozione collettiva, uno spazio-tempo non vissuto direttamente fatto di privazioni e di orrori violentemente in contrasto con il quotidiano dell'Occidente contemporaneo. Passano i decenni e la graduale crescita dell’assuefazione al consumismo e alla garanzia (almeno nominale) dei diritti hanno plasmato le nostre percezioni in un modo che ci porta a considerare punte di edonismo sfacciato molto meno aliene dell'idea di vivere in clandestinità perchè ebreo o per organizzare la resistenza contro il nazi-fascismo. In questo senso il serial The Man in the High Castle è una gradevole novità perché prova a farci vivere quella realtà (e soprattutto le conseguenze di quella realtà) con una simulazione audiovisivamente realistica.Poche immagini possono colpire più di tante parole: è il mantra in sottofondo. Qui si riconosce l’influenza del carismatico Ridley Scott anni Ottanta. Rispetto al romanzo di Dick (almeno per ora, nel pilota) si registrano poche variazioni che riguardano principalmente le relazioni tra i personaggi. La novità più importante riguarda il MacGuffin al centro del racconto. Philip K. Dick faceva ruotare tutto intorno a un libro intitolato La cavalletta non si alzerà più, scomodo romanzo ucronico di Hawthorne Abendsen che immagina un mondo in cui in cui gli Alleati battono l'Asse. Nella serie tv il libro, vero e proprio catalizzatore della resistenza, diventa una pellicola cinematografica. Ovvio che l'espediente narrativo serva a sveltire l'azione: passaggi di stato, evoluzioni emotive, prese di coscienza. Ma in questo spostamento c'è qualcosa di più. L'impatto emotivo dell'audiovisivo sostituisce idealmente un modo di accedere alla conoscenza della Storia fatalmente legato alla cultura libresca e novecentesca. Qui c'è il segno di tutta la distanza tra ventesimo e ventunesimo secolo. Una strada senza ritorno.Ma torniamo al telefilm. La sostituzione libro/film ha delle implicazioni spiazzanti. Il girato alla base del documentario
sembra autentico, non una ricostruzione scenica. Dato il contesto è implausibile l'esistenza di una Hollywood anni Sessanta lternativa dotata dei mezzi necessari per realizzare artificialmente le immagini che commuovono Juliana: lo sbarco in Normandia, la Conferenza di Jalta, la caduta del Palazzo del Reichstag. Quindi non si insinua nessun dubbio finzione/realtà. Nel romanzo di Dick invece "La cavalletta non si rialzerà più" narrava di una linea temporale in cui gli Alleati hanno vinto ma con delle varianti amplificando l'effetto universi alternativi. Vero che qui l’afflato cervellotico dello scrittore di fantascienza è stato semplificato ma è anche vero che se le immagini sono registrazioni autentiche allora sono testimonianza tangibile e incontestabile dell'esistenza di un'altra dimensione. Strano a dirsi ma ciò rende i personaggi "fantascientificamente" più motivati. E noi spettatori più curiosi sugli sviluppi.

Sempre in tema di libri (fortunatamente) del racconto di Dick resta praticamente invariato il tocco dell'I-Ching (il libro cinese del cambiamento) ovvero l'oracolo che aiuta le persone a prendere decisioni su qualsiasi cosa. Questo vago sentore di filosofia orientale ci porta dritti alla chiusura del pilota dove c'è il tocco finale dell'origami a forma di unicorno. Giusto omaggio al Blade Runner di Ridley Scott. Siamo onesti, che mondo sarebbe senza il successo planetario del filmone "ne ho viste cose che voi umani"? Probabilmente un continuum ucronico in cui il grande Philip K. Dick verrebbe ricordato come uno tra i tanti bravi scrittori di fantascienza. Ma nel mucchio insieme a Roger Zelazny, Robert Sheckley, Stanislaw Lem, ecc ecc: nomi conosciuti solo da una nicchia di appassionati.