Ci sono tre modi di trarre un film da un libro. Uno consiste nel replicarne la trama, un altro nel replicarne lo spirito. Il terzo consiste nel prendere più o meno l'idea e farci quello che si vuole.

Dalla sua morte nel 1982 Philip K. Dick è stato portato sullo schermo numerose volte. Quasi tutte, purtroppo, con la terza modalità: pensiamo a Total Recall, Screamers, Impostor, Minority Report, Next.

Se ci chiediamo quale sia stato l'adattamento da Philip Dick che ha ottenuto il risultato artistico migliore la risposta è quasi scontata: Blade Runner. Che possiamo ascrivere al modo due: la storia era quasi completamente diversa da quella di Do Androids Dream of Electric Sheep?, il romanzo di Dick da cui era tratto, ma lo spirito dickiano c'era, si sentiva.

The Man in the High Castle, la serie che la casa di produzione di Ridley Scott ha tratto dal romanzo più famoso di Dick, in Italia noto come La svastica sul sole, va vista proprio in quest'ottica. Non bisogna cercarvi la corrispondenza col romanzo perché non c'è. La trama segue solo a grandi linee quella del libro, i personaggi sono solo vagamente gli stessi, ma l'idea c'è la "dickianità" assolutamente c'è.

Se Blade Runner alla fine aveva due autori, Dick e Ridley Scott, gli autori di The Man in the High Castle sono Dick e Frank Spotnitz. Noto soprattutto per X-Files, ma autore anche di diverse altre serie di qualità come Hunted, Crossing Lines o la britannica Strike Back, Spotnitz, che tra l'altro è nato in Giappone, ha innanzitutto il merito di aver saputo creare un'ambientazione estremamente realistica, di grande impatto emotivo. 

La serie è ambientata negli anni Sessanta, ma sono anni Sessanta diversi dai nostri: la Seconda guerra mondiale è stata vinta dall'Asse e gli Stati Uniti sono stati divisi in due aree, la parte est fa ora parte del Grande Reich nazista, mentre gli Stati del Pacifico sono sotto il dominio giapponese. È soprattutto qui che è ambientata la storia, seguendo le vicende di Juliana Crain, la cui sorella, braccata dalla polizia giapponese, la coinvolge in una missione pericolosa: portare la pellicola di un misterioso film nella zona neutrale, per consegnarla a un altro agente della resistenza che dovrà farla pervenire all'Uomo nell'Alto Castello.

La San Francisco sotto il dominio giapponese è di impatto. Anche se non sono molte le scene in esterni, Spotnitz riesce a rendere l'idea di un paese sconfitto, impoverito e sotto il giogo straniero. L'arroganza dei militari giapponesi, la miseria, la paura: gli anni sessanta di Spotnitz ricordano per certi versi gli anni Quaranta in Francia. E c'è la colonizzazione culturale: nel comportamento degli americani dell'est spuntano spesso gesti e abitudini giapponesi, così come quelli dell'ovest trovano naturale che i malati e gli ebrei siano eliminati e bruciati in apposite strutture.

La storia è quasi una partita a scacchi. Da una parte della scacchiera c'è l'Obergruppenführer John Smith, interpretato da un bravissimo Rufus Sewell. Personaggio straordinario, dalle apparenze pacate, a tratti quasi familiari, ma capace di una spietatezza affilata. Dall'altra il Ministro del commercio Tagomi (Cary-Hiroyuki Tagawa), dirigente governativo giapponese, riflessivo e pacifista, che basa le sue decisioni sull'oracolo I Ching.

Sul campo si muovono, anche qui specularmente, Juliana Craig (Alexa Davalos) e Joe Blake (Luke Kleintank), esponente della resistenza negli Stati dell'este ma in realtà agente nazista ai diretti ordini di Smith. Questo personaggio corrisponde vagamente al Joe Cinnadella del libro, ma la sua storia è del tutto diversa. Inviato da Smith nella zona neutrale per consegnare una copia del film all'Uomo nell'Alto Castello, ma con l'incarico segreto di ucciderlo, Joe incontra Juliana; i due stringeranno un legame non del tutto compiuto ma che li porterà comunque ad andare oltre i ruoli rispettivamente assegnati.

Al centro del romanzo di Dick c'è il romanzo La cavalletta non si alzerà più, scritto dal misterioso scrittore Hawthorne Abendsen, che nel libro è l'Uomo nell'Altro Castello. Il romanzo racconta un presente alternativo in cui l'Asse ha perso: ma attenzione, non descrive il nostro mondo, ma un mondo ancora diverso, in cui la guerra fredda è tra Stati Uniti e Impero britannico. Con questo trucco Dick riesce a mettere in crisi la realtà del lettore, la cui realtà stessa viene messa in crisi.

Se nel libro c'è un libro, nel film c'è un film. Anzi, più di un film: una serie di pellicole di origine ignota che fanno la strada contraria: la resistenza le raccoglie e le fa pervenire, segretamente e per motivi che non sono chiari a nessuno fino all'Uomo nell'Alto Castello. Non ci soffermiamo su questo personaggio per non fare anticipazioni, ma la soluzione di Spotnitz su di lui è sicuramente interessante.

La serie si compone di dieci episodi, ma quando si arriva alla fine dell'ultima puntata resta parecchio di irrisolto. Si parla di Dick, di materiali che possono essere letti a vari livelli, e quindi una spiegazione dettagliata dei perché e dei percome può anche non essere ritenuta necessaria. Ma se ci togliamo l'abito del lettore di Dick e ci mettiamo quello di conoscitore delle serie tv, la sensazione è chiaramente quella di una volontà di lasciare abbastanza fili non annodati per poter mettere in cantiere un'eventuale seconda stagione.

Qui è secondo noi un po' il limite della serie, il motivo per cui ci siamo fermati a quattro stelle senza arrivare a cinque. Perché, così com'è, la costruzione di Spotnitz è troppo poco solida, manca non solo di spiegazioni ma anche di giustificazioni, e manca di una vera conclusione. Se la serie fosse stata molto fedele al libro andare avanti dopo la fine della vicenda narrata sarebbe stato inconcepibile, ma vista la rielaborazione del plot un proseguimento potrebbe anche starci. Anche così, però, ci sembrerebbe un po' forzato.

La trama, le spiegazioni, i fili riannodati comunque a nostro avviso hanno importanza fino a un certo punto. Altri la penseranno in modo diverso. Per noi l'immersione per dieci ore in un mondo creato da Philip K. Dick, una realtà alternativa che contiene anche un forte messaggio per i pantofolai del ventunesimo secolo che vivono come scontata la loro vita in un mondo tutto sommato ricco e libero, spesso giudicando senza sapere di cosa stanno parlando situazioni del tutto meno fortunate della loro, sono una vera e propria manna dal cielo.