Avrei potuto tornare indietro. Sarebbe bastata una semplice virata. Invece proseguii, salendo in traiettorie concentriche attorno a una ciminiera di mattoni per sfruttare le calde correnti ascensionali. Quando arrivai alla colonna di fumo, sentii tutta la mancanza di energia.Però continuai, girando attorno alla stele di fuliggine che si gonfiava puntando il tetto di cenere, e ogni battito d'ali mi portava alla memoria il cicalino della sala delle vasche che rimproverava la mia scelta.Prima di entrare nel soffitto carbonioso che alimentato dalla colonne di fumo dell'intera città mutava la propria forma in bozzi grigi e depressioni nere, urlai a Petra Pan di trattenere il respiro.

Non ci sarebbe voluto molto. Ce l'avremmo fatta.

Il gelo e il buio nebbioso mi fece battere le ali più forte. Sentivo prosciugarmi. La poca energia andava via, risucchiata dallo sforzo di salire al massimo delle mie possibilità. Le ali erano pesanti, tanto che potevo accorgermi del peso infinitesimale di ognuna delle mie sedicimila piume di titanio.

Andavamo nel nero gelato e appiccicoso. Ancora pochi secondi e ce l'avremmo fatta. Un paio di battiti d'ali o poco più, a quella velocità.

Sbucai nel cielo, completamente a secco, dissanguato. La notte era nera e luminosa.

Urlai: – Guarda, Petra Pan! Devi guardare!

Le stelle della Via Lattea erano un sorriso d'argento, brillante, con sbuffi di astri a formare le labbra e materia cosmica come denti ben allineati. La luna era l'occhio che osservava la nostra parabola discendente. Portava il segno di un morso nella roccia lì dove il Mare della Tranquillità era stato ferito dalla guerra, arrivata pure lì. Detriti orbitavano insieme al disco deturpato, simili a spruzzi di lacrime.

La volta era immensa e aveva per pavimento ciò che prima era stato il tetto di cenere, solo che lassù i raggi lunari e stellari lo trasformavano in un pavé di mobili sampietrini luminosi spazzati dai venti d'alta quota. Dal pavimento di cenere venivano fuori i fili lucenti che come steli tenevano i dirigibili, che erano giganteschi bufali frenati, scalpitanti, desiderosi di prendere la via del vento e correre su quella prateria di carbone combusto.

Avrei voluto dire a Petra Pan che dentro i dirigibili c'era internet, fargliela vedere. Mostrarle il flusso d'informazioni imbrigliato dai cinesi e concesso solo ai loro vassalli per lo sfruttamento della penisola italica. Farle capire come anche i cosi di metallo possono diventare intelligenti e bagnarsi di cultura oltre che di olio, studiando, lavorando sodo per essere qualcosa di diverso da un manutentore automatico di dirigibili. Capire il mondo. Arrivare a percepire il senso della bellezza delle cose sfiorando quella degli uomini, e riuscire a costruirsi un impianto vocale per parlare con chi quella cultura l'aveva creata, tanto tempo prima.

Invece precipitammo di nuovo nella cenere in uno sbuffo. Avvolti dalla colla nera, sfiniti, secchi.

Avrei voluto dire a Petra Pan che era davvero brava a pulire i cosi di metallo e che io lo sapevo, perché riuscivo a davvero a volare per più tempo quando era lei a scrostarmi il carbone dagli ingranaggi, e che l'uomo nel completo azzurro aveva detto il contrario solo per avere i suoi seni, per avere il controllo delle cose, delle persone, del mondo. E che un essere umano che indossa le stelle e può spogliarsene non può non averle incontrate almeno una volta nella vita.

Ma non riuscii a dirle niente di tutto questo.

Attraversammo il tetto di cenere a una velocità folle, la città comparve in uno spruzzo di luci gialle, umidità, carbone e neve. Allora feci l'unica cosa da fare con l'ultima stilla di energia rimastami. Tolsi potenza alle mie routine cognitive e usai quella piccolissima riserva per stallare meccanicamente le ali.

Le piume di titanio si allinearono e il loro tintinnio fu l'ultima sensazione cosciente.

Poi ho ricordi parziali, deframmentati a fatica dopo diversi giorni di ricostruzioni di dati e di riassemblaggi audio, dopo essere tornato di nuovo su, tra i dirigibili. Perché hanno provato a resettarmi, ma io avevo previsto degli angoli bui nei quali nascondere le cose proprio per questa eventualità.

Il rapporto delle ali spezzate mi ha fatto capire che ero schizzato senza rallentare attraverso la finestra di rientro, mancando del tutto il davanzale. I dati sull'incrinatura del carapace mi hanno detto che ero riuscito a girarmi sulla schiena prima di strusciare sul pavimento della sala vasche, e i due decimi di secondo registrati dallo sgancio di sicurezza dei ragni elastici di metallo mi hanno dato la certezza che Petra Pan non era rimasta imprigionata per i dodici minuti che erano serviti al personale del Palazzo di Manutenzione per accorgersi dell'incidente.

Poi ho spulciato tutte le registrazioni audio cominciando dall'ultima, che è stata quella che, se fossi riuscito a costruirmi anche le lacrime, avrebbe manifestato tutta la mia commozione.

Perché si sentono i passi di una persona e poi la voce rabbiosa e sorpresa di uomo che chiede: – Cos'è successo?

La riposta è di Petra Pan, viva, illesa, poi licenziata. Ma quello che conta è la risposta, che arriva dopo un colpo di tosse, un po' roca, e dopo un suono come quello delle piume di titanio nel vento ma che invece è il rumore di un sorriso di denti che battono per il freddo patito. Petra Pan dice in un soffio: – Ho visto le stelle.